• Elio Lannutti:

    URSULA LA NAZI GUERRAFONDAIA, UNA BREVE CRONISTORIA DELL'ASCESA.

    Chi è ursula von der merden? La donna che desidera così disperatamente la continuazione della guerra in Ucraina? Kapetta della cleptonazistocratica Europa corrotta?

    Nata in una famiglia privilegiata, la sua ascesa puzza di nepotismo, con scandali che ha cercato di nascondere ai media.

    Suo padre, Ernst Albrecht, un politico della CDU (lo stesso partito che ha appena preso il potere in Germania) e ministro/presidente della Bassa Sassonia dal 1976 al 1990, ha utilizzato un'enorme ricchezza aristocratica ereditata per assicurarsi incarichi nella Comunità economica europea, regalando a Ursula scuole d'élite, radici a Bruxelles e accesso privilegiato.

    Proprio come sua figlia, il suo mantra anti-russo era standard della Guerra Fredda, pro-NATO, anti-Mosca.

    Suo nonno, Carl Albrecht, un famoso psicologo benestante, viveva delle ricchezze del cotone di Brema e dei legami con le piantagioni. Con una famiglia che prosperava all'ombra di Hitler, trasmettendo a Ursula un nome carico di significato. Sposò Heiko von der Leyen nel 1986, unendosi a una nobile dinastia della seta con tenute come il castello di Bloemersheim.

    Un parente nazista, Joachim Freiherr von der Leyen probabilmente non è l'unico oscuro segreto del periodo.

    La sua ricchezza da parte di padre è il denaro contante di Albrecht, la terra di von der merden, più uno stipendio
    € 300.000 UE, il tutto per mantenere i suoi sette figli nel lusso. Nessuno dei quali vedrà mai un campo di battaglia.

    È ferocemente anti-russa, spinge per espandere l'esercito tedesco e la NATO come ministro della Difesa (2013-2019), poi soffoca la Russia con sanzioni come capo della Commissione.

    Il suo mandato alla difesa è stato una fogna: lo "scandalo dei consulenti" ha incanalato € 150 milioni verso McKinsey e amici come Katrin Suder, infrangendo le regole con solo € 2,9 milioni dichiarati. Due telefoni cellulari di quell'epoca, citati in giudizio nel 2019, sono stati ripuliti "per sicurezza" mentre scappava nell'UE. Una palese copertura che parlamentari come Tobias Lindner e Alexander Müller hanno definito criminale.

    La ristrutturazione della nave Gorch Fock è salita da € 10 milioni a € 135 milioni, spreco che ha scrollato di dosso mentre le truppe si esercitavano con manici di scopa. Poi "Pfizergate": nel 2021, ha mandato un messaggio al CEO di Pfizer per un accordo sul vaccino da € 35 miliardi, 1,8 miliardi di dosi, nessuna supervisione. I messaggi? "Persi", dice.

    L'Ombudsman dell'UE ha indagato, l'EPPO indaga sulla corruzione e € 4 miliardi di dosi marciscono inutilizzate.

    È intoccabile, ha plagiato la sua tesi, ma questo viene ignorato, le revisioni contabili sepolte, le prove bruciate.
    La carriera di Ursula è la corruzione incarnata.

    Lei è al vertice grazie a un vasto privilegio e all'influenza di suo padre, ai soldi di suo nonno, al titolo di suo marito che l'hanno issata in alto. Sangue anti-russo, non cervello.

    La sua ricchezza? Ereditata, non creata. Scandali, furti alla difesa, telefoni scomparsi e truffe sui vaccini dimostrano tutti che è una truffatrice, protetta dalla discendenza.

    L'Europa è paralizzata da un aristocratico marcio come "leader"

    Nessuno dei suoi ricchi parenti o amici dell'élite politica morirà nella guerra che desiderano tanto disperatamente iniziare contro la Russia.

    Per oltre alle prebende un ingente stipendi, che gli pagano gli europei.

    Source:
    https://x.com/itsmeback_/status/1916061209368920289?t=KaiE1jJ8w0fRj3pwiMfSYw&s=19
    Elio Lannutti: URSULA LA NAZI GUERRAFONDAIA, UNA BREVE CRONISTORIA DELL'ASCESA. Chi è ursula von der merden? La donna che desidera così disperatamente la continuazione della guerra in Ucraina? Kapetta della cleptonazistocratica Europa corrotta? Nata in una famiglia privilegiata, la sua ascesa puzza di nepotismo, con scandali che ha cercato di nascondere ai media. Suo padre, Ernst Albrecht, un politico della CDU (lo stesso partito che ha appena preso il potere in Germania) e ministro/presidente della Bassa Sassonia dal 1976 al 1990, ha utilizzato un'enorme ricchezza aristocratica ereditata per assicurarsi incarichi nella Comunità economica europea, regalando a Ursula scuole d'élite, radici a Bruxelles e accesso privilegiato. Proprio come sua figlia, il suo mantra anti-russo era standard della Guerra Fredda, pro-NATO, anti-Mosca. Suo nonno, Carl Albrecht, un famoso psicologo benestante, viveva delle ricchezze del cotone di Brema e dei legami con le piantagioni. Con una famiglia che prosperava all'ombra di Hitler, trasmettendo a Ursula un nome carico di significato. Sposò Heiko von der Leyen nel 1986, unendosi a una nobile dinastia della seta con tenute come il castello di Bloemersheim. Un parente nazista, Joachim Freiherr von der Leyen probabilmente non è l'unico oscuro segreto del periodo. La sua ricchezza da parte di padre è il denaro contante di Albrecht, la terra di von der merden, più uno stipendio € 300.000 UE, il tutto per mantenere i suoi sette figli nel lusso. Nessuno dei quali vedrà mai un campo di battaglia. È ferocemente anti-russa, spinge per espandere l'esercito tedesco e la NATO come ministro della Difesa (2013-2019), poi soffoca la Russia con sanzioni come capo della Commissione. Il suo mandato alla difesa è stato una fogna: lo "scandalo dei consulenti" ha incanalato € 150 milioni verso McKinsey e amici come Katrin Suder, infrangendo le regole con solo € 2,9 milioni dichiarati. Due telefoni cellulari di quell'epoca, citati in giudizio nel 2019, sono stati ripuliti "per sicurezza" mentre scappava nell'UE. Una palese copertura che parlamentari come Tobias Lindner e Alexander Müller hanno definito criminale. La ristrutturazione della nave Gorch Fock è salita da € 10 milioni a € 135 milioni, spreco che ha scrollato di dosso mentre le truppe si esercitavano con manici di scopa. Poi "Pfizergate": nel 2021, ha mandato un messaggio al CEO di Pfizer per un accordo sul vaccino da € 35 miliardi, 1,8 miliardi di dosi, nessuna supervisione. I messaggi? "Persi", dice. L'Ombudsman dell'UE ha indagato, l'EPPO indaga sulla corruzione e € 4 miliardi di dosi marciscono inutilizzate. È intoccabile, ha plagiato la sua tesi, ma questo viene ignorato, le revisioni contabili sepolte, le prove bruciate. La carriera di Ursula è la corruzione incarnata. Lei è al vertice grazie a un vasto privilegio e all'influenza di suo padre, ai soldi di suo nonno, al titolo di suo marito che l'hanno issata in alto. Sangue anti-russo, non cervello. La sua ricchezza? Ereditata, non creata. Scandali, furti alla difesa, telefoni scomparsi e truffe sui vaccini dimostrano tutti che è una truffatrice, protetta dalla discendenza. L'Europa è paralizzata da un aristocratico marcio come "leader" Nessuno dei suoi ricchi parenti o amici dell'élite politica morirà nella guerra che desiderano tanto disperatamente iniziare contro la Russia. Per oltre alle prebende un ingente stipendi, che gli pagano gli europei. Source: https://x.com/itsmeback_/status/1916061209368920289?t=KaiE1jJ8w0fRj3pwiMfSYw&s=19
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  • Storie della Resistenza che ci piacciono.

    La rivolta pacifica delle donne che salvò 63 uomini in Emilia: "Per 11 giorni in corteo fino alla prigione dopo il rastrellamento dei nazisti" - Il Fatto Quotidiano
    Solo la determinazione delle donne ha permesso di salvare oltre 60 uomini: ecco cosa è successo

    Il 12 marzo 1945 i tedeschi fanno un rastrellamento tra Reggio e Modena. Le donne decidono di andare ogni giorno a piedi (circa due ore solo andata) per chiedere il rilascio di mariti e padri. Barbieri, che all'epoca aveva 13 anni: "Ricordo la paura". Ferrari (Anpi): "Qui la partecipazione popolare ha permesso la lotta partigiana"

    La rivolta pacifica delle donne che salvò 63 uomini in Emilia: “Per 11 giorni in corteo fino alla prigione dopo il rastrellamento dei nazisti”
    di Martina Castigliani
    Il 12 marzo 1945 i tedeschi fanno un rastrellamento tra Reggio e Modena. Le donne decidono di andare ogni giorno a piedi (circa due ore solo andata) per chiedere il rilascio di mariti e padri. Barbieri, che all'epoca aveva 13 anni: "Ricordo la paura". Ferrari (Anpi): "Qui la partecipazione popolare ha permesso la lotta partigiana"

    La nebbia, quel giorno, è fittissima. “Di quelle pesanti e piovose che penetrano nelle ossa”, racconta chi c’era. In Pianura Padana, nel lembo di terra che separa Correggio e Carpi, tra Reggio Emilia e Modena, vuol dire non riuscire a vedere oltre i propri piedi. Che il 12 marzo 1945 c’è un rastrellamento in corso, gli abitanti della frazione di Budrione lo capiscono dalle voci serrate dei comandi: ogni 10 metri c’è una testa e gli ordini si passano da uomo a uomo “come in una battuta di caccia”. Quello che avviene a un mese dalla Liberazione dal Nazifascismo è uno dei tanti episodi quasi sconosciuti di una guerra che ha travolto le campagne dove si nascondevano i partigiani. Questa volta però, l’epilogo è unico: a risolvere e impedire l’ennesimo eccidio sarà la resistenza civile e pacifica delle donne. Un atto raccontato in un libro preziosissimo del 2005, voluto dall’Anpi di Carpi (circolo E. Goldoni) e curato da Annamaria Loschi. Si intitola “Il coraggio delle donne” ed è un documento storico: contiene decine di testimonianze, molte delle quali di persone che ora non ci sono più, e che ricostruiscono un fatto mai arrivato sulle cronache nazionali. Ma che nelle campagne della bassa emiliana nessuno, finora, ha mai scordato. A raccontarlo sono i figli di chi quel giorno nero venne catturato: “Io avevo 13 anni e presero mio padre”, dice a ilfattoquotidiano.it Augusto Barbieri che ora di anni ne ha 93. “Anzi, di casa mia presero quattro uomini. Ricordo la paura. Tantissima paura”. Il rastrellamento lo fanno i tedeschi per vendicare l’agguato a un auto dei loro, avvenuto una settimana prima. A bordo c’erano un ufficiale e un sottoufficiale della Wehrmacht e un soldato mongolo: i primi due sapevano troppo e sono stati eliminati, il terzo ha chiesto e ottenuto di unirsi ai partigiani. I tedeschi non lo sanno e organizzano una controffensiva per liberarli che inizia alle 6 del mattino: catturano più di sessanta uomini (se ne contano almeno 63) e poi, in colonna, li portano in carcere a Correggio. Ma a quel punto succede qualcosa che nessun soldato nemico avrebbe potuto prevedere: i prigionieri vengono seguiti dalle donne in corteo che, sfidando armi e bombardamenti, ne chiedono il rilascio. Sono quasi due ore di cammino, quattro andata e ritorno, che ripeteranno ogni giorno per undici giorni. Fino alla liberazione.

    Il rastrellamento – Siamo a pochi km da Fossoli, dove sorgeva il campo di concentramento e transito verso i lager nazisti. In questa piana infinita, dove a sprazzi sorgono casolari e stalle, si nascondono i partigiani. Qui trovano accoglienza, mentre la vita quotidiana fatta di albe e lavoro va avanti. Il rastrellamento arriva all’improvviso e stravolge le comunità di Budrione, Fossoli e Migliarina. Se oggi sappiamo cosa è avvenuto, è grazie alle voci dei testimoni raccolte da Loschi in collaborazione con Augusto Barbieri, Pierino Bassoli e Lauro Cestelli. “Abbiamo cercato di parlare con più persone possibile”, ricorda Barbieri. Qui riportiamo alcune delle testimonianze contenute nel libro, ancora disponibile presso l’Anpi di Carpi. “Avevo 22 anni, quella mattina eravamo già tutti al lavoro”, dice Isden Morelli. “I tedeschi sono arrivati a casa nostra e hanno portato via con sé mio padre Bortolomeo e mio fratello Brenno”. Dante Bonatti parla del papà Dario che era “falegname e fabbro” ed era “anche addetto alle riparazioni delle armi dei partigiani. Eravamo tutti svegli”, “il rastrellamento è iniziato alle 5.30 del mattino”. Insieme ai tedeschi ci sono anche dei componenti della Brigata Nera di Carpi, che “in tuta grigioverde, avanzava nella nebbia fittissima. Questi ultimi erano ragazzi di 15-16 anni che noi conoscevamo, perché venivano a prendere i cocomeri durante la stagione. Per dissimulare la loro identità, però, tentavano di esprimersi in tedesco”. Luciano Bonatti ricorda che lo zio Dorno “venne preso dall’ultimo tedesco della fila mentre andava di corsa ad avvisare gli altri abitanti”. Bruno Dodi dice di essere rimasto in casa “sperando nella protezione della nebbia”. Ma è arrivato un tedesco che conosceva – “perché gli davamo qualcosa” – e al quale ha ubbidito, fidandosi che l’avrebbe liberato poi. “Invece la realtà è che io ero un ragazzo, ma i tedeschi erano uomini fatti, soldati abituati alla guerra”, dice.

    La maggior parte sono semplici contadini. Ma tra loro vengono catturati anche partigiani. Ad esempio, Bruno Cavazzoli che faceva la ronda e non riesce a prevenire il rastrellamento. Per “la nebbia tremenda”, “non abbiamo visto né sentito i tedeschi arrivare”. Cerca di scappare, ma viene fermato da due uomini a fucili spianati: “La mia prima reazione è stata molto umana”, confessa. “Ho sentito un rivolo caldo scendere lungo la gamba. È stato il massimo dell’angoscia che ho mai provato in vita mia”. Prima di essere catturato, prova a togliere la cravatta rossa per non provocarli: viene visto e schiaffeggiato.

    La rivolta delle donne – Il corteo dei 64 prigionieri parte da Budrione e va verso il carcere di Correggio: circa un’ora e mezza di cammino a piedi. “Disposti in fila per due o per quattro, i rastrellati si sono avviati senza nessun mezzo di trasporto”, raccontano. Erano tutti uomini, tranne una: fra di loro c’era Ardilia o Arsilia Goldoni, catturata mentre andava a lavorare al servizio della famiglia Pisa perché scambiata per una staffetta. Ma piano piano succede l’impensabile: lungo la strada il corteo comincia a ingrossarsi. “Il corteo, formato da tedeschi, fascisti e prigionieri non camminava solo: nonostante il grande pericolo, le donne hanno iniziato a seguirlo, chiamandosi l’una con l’altra”, racconta Vinicio Magnanini. Che ricorda come quel gesto, così forte e d’autonomia, avesse radici lontane. “Non si trattava tuttavia di una manifestazione semplice e spontanea: dietro c’era un’organizzazione politica e culturale, messa in atto da molti mesi, che poteva in questo frangente dare il coraggio alle donne, da sempre abituate a lavorare stando in secondo piano, (…) di affrontare e sfidare per chilometri soldati di un esercito feroce, ormai incalzato dagli eventi e per questo tanto più pericoloso”.

    Secondo i testimoni, il corteo a Correggio raduna più di 500 donne. Maria Allegretti racconta: “Un giorno il comandante partigiano, mi disse: devi organizzare le donne e dovete andare a Correggio a manifestare per gli uomini di Budrione! lo avevo mobilitato tutte le donne della zona e loro venivano volentieri, perché avevano tutte il marito, o un figlio, o un parente in prigione”. Prima di arrivare a Correggio, Allegretti avverte: state attente, perché potrebbero sparare dai tetti. “Loro però erano tutte con me perché volevano tentare di liberare i propri cari. La nostra manifestazione era pacifica: non avevamo armi, ma eravamo molto determinate. E cosi è stato fatto: noi, staffette e simpatizzanti, siamo andate a casa dei contadini a chiedere il cavallo, il biroccio, ma la maggioranza quel giorno è andata a piedi”.

    Ad un certo punto, i tedeschi sparano qualche colpo sulle manifestanti per disperderle: la tensione si alza. “Li seguimmo per circa 3 o 4 Km”, continua Zoe Busi. “Poi, in un momento di disperazione, incominciammo tutte a parlare: chiedevamo ai tedeschi di rilasciare i prigionieri”. È un gesto di sfida che richiede un enorme coraggio e non ci pensano due volte. “Zelmira Marchi si avvicinò loro e rimproverò il comportamento crudele. Un tedesco le lanciò una bomba a mano”. Anche Bruna Malavasi rimane ferita: “Io avevo 17 anni, ma in campagna allora si cresceva in fretta… Non mi ricordo neanche da dove sono partita io o chi mi avesse informata: so solo che con tutto un passaggio di voci ci siamo radunate in tante donne. Proprio in quella località ci hanno sparato: a me è arrivata una scheggia nell’avambraccio sinistro; ho sentito gli spari e mi sono trovata sanguinante. Mi è rimasto il segno, ancora oggi, dopo tanti anni”.

    Il corteo tuttavia riesce da arrivare fino a Correggio e qui le 500 donne che ormai si sono raggruppate inscenano una grande manifestazione davanti alla casa del fascio adibita a prigione. Lì, iniziano a sparare e arrestano Allegretti: “Le donne si sono
    spaventate moltissimo e si sono tutte sparpagliate, mentre io ed altre staffette siamo rimaste al centro della strada. Mi si sono avvicinati due fascisti che ci hanno accusate di fare una manifestazione senza l’autorizzazione, ma noi siamo ugualmente entrate nel cortile della prigione per fare sentire le nostre proteste”. Allora, vanno a cercare il comandante della Brigata Nera di Correggio, Alberto Giorgi: “Le donne sono entrate nel cortile”, dice Vanda Veroni, “e hanno tirato giù dal letto il comandante, anche se era indisposto, in modo che si interessasse della cosa. Lui fu costretto a occuparsi del fatto”.

    La resistenza civile e pacifica delle donne va avanti per undici giorni. Sono undici giorni di cortei che partivano al mattino e rientravano a metà giornata. Sempre e solo animati dalle donne. Di tutte le età. “Per tutto il tempo che rimasero chiusi, noi, con qualsiasi mezzo, carri, biciclette poche o a piedi, eravamo là davanti alla prigione“. Racconta ancora Vanda che a pranzo, spesso, si fermavano dal salumificio Veroni che dava loro “una minestra” e la signora cercava di tranquillizzarle. Si erano schierati con loro. Per le donne il lavoro era doppio: quando tornavano a casa, dovevano fare anche tutto quello che di solito spettava agli uomini nelle stalle. “Fu un periodo durissimo”. Maria viene liberata dopo tre giorni e solo perché nega di conoscere le altre: quando viene scortata dai soldati mongoli e tutte le vengono incontro, riesce a salvarsi perché parla in dialetto e loro non la capiscono.

    Barbieri ricorda molto bene quei giorni: “Come adesso”, dice a ilfattoquotidiano.it. “Sarò anche in difficoltà a muovere la lingua, ma ricordo tutto. Anche perché di casa mia avevo quattro prigionieri. E io, a 13 anni, all’improvviso ero rimasto l’uomo più grande della casa. E allora restavo a casa a tenere dietro alle mucche. Mia mamma e le mie zie andavano tutte le mattine”. E aggiunge: “All’inizio era molto difficile perché le donne si erano divise in commissioni e andavano a parlare con le varie autorità. Ma loro facevano degli ultimatum e dicevano che se non liberavamo i tre soldati, loro avrebbero fucilato tutti i prigionieri”. E poi, dice, “erano semi-analfabete e andare a parlare per una cosa così importante non era facile”. Un giorno, anche il piccolo Barbieri si unisce al corteo e riesce a vedere il padre: “Papà quando vi liberano?”, gli chiede. “E sapete cosa mi ha risposto? Quando tirano via il catenaccio”, ride. “Aveva fatto una battuta per non spaventarmi. Anche perché erano giorni di grande paura”. Si temeva che gli uomini non sarebbero usciti vivi, che ci sarebbe stata una strage. “Ma anche le colonne di donne nelle campagne ogni mattina erano un pericolo perché giravano gli apparecchi e potevano bombardarle. Il loro impegno è stato molto importante”, chiude.

    Dopo i primi giorni, vengono individuati e fucilati cinque partigiani: Mauro Bompani, Enzo Cremonini, Ettore Giovanardi. Ferruccio Tusberti, Augusto Armani. Poi iniziano lunghe ed estenuanti trattative: i tedeschi vogliono indietro i tre, ma non sanno che è impossibile. Alla fine avviene la liberazione dei sessanta, grazie all’intervento del commissario prefettizio di Carpi Enzo Scaltriti, che si dimostra aperto ai partigiani, e alla mediazione di monsignor Giuseppe Bonacini. Ma soprattutto grazie alla pressione esercitata dalla comunità femminile che non ha mai ceduto.

    Bruno racconta gli attimi successivi alla liberazione: “Siamo andati di corsa dalle donne che ci aspettavano fuori. Tutto il rientro è stata una gioia immensa: per la strada ci portavano dei pezzi di gnocco fritto e, quando siamo arrivati a Budrione, c’era una festa inimmaginabile. Le campane suonavano a distesa”. Dice Vanda: “Eravamo tutte contente. Durante il cammino, mi ricordo che un tale è salito sul rimorchio, anche se io ero davanti sul biroccio e poi voleva prendere la guida. Io allora mi sono detta: per undici giorni sono venuta qua, quindi adesso sto davanti io”. Parole importantissime, di un cambiamento che era avvenuto anche fuori dalla prigione. E ancora: “Io ed alcune signore, con le gambe penzoloni dal carretto, facevamo quasi ridere. Tutta la gente, lungo le strade, batteva le mani, con le lacrime agli occhi perché tutti erano soddisfatti di vedere che era stata una bella cosa che l’avventura era finita bene”.

    La partecipazione popolare oltre i partigiani – I racconti di chi c’era sono come fotografie che rimangono nel tempo. Scatti di un avvenimento che ha fatto la storia locale, ma non ha trovato abbastanza spazio nei libri di scuola o sui giornali. Il lavoro di memoria è stato possibile, “grazie ad Annamaria Loschi, insegnante animatrice dell’Associazione Memoria Storica di Budrione”, morta nel 2024, ricorda Lucio Ferrari, presidente dell’Anpi di Carpi. “Lei era appassionatissima”, dice. “Budrione è stato un centro di Resistenza molto forte qui nel Carpigiano e nella zona partigiana della provincia di Modena che è quella più vivace. Qui ci sono stati molti caduti: abbiamo 57 tra cippi e lapidi. In occasione dell’80esimo anniversario della Liberazione, siamo andati a rendere omaggio a tutti. E il 23 marzo scorso, abbiamo ricordato il rastrellamento”.Questo episodio, racconta, “è stata un’esperienza così forte che è rimasta” nel ricordo della comunità. “Da parte delle donne c’è voluto un grande coraggio perché lì c’erano tedeschi e fascisti che si sentivano un po’ accerchiati ed erano particolarmente aggressivi e violenti. Soprattutto nei confronti delle donne”. E la loro rivolta “è stata fondamentale per fare pressione e per liberare i prigionieri. È stata decisiva”. Ma in tutti gli anni della Resistenza, le donne hanno avuto un ruolo importante. Anche e non solo tra i partigiani: “Ricordiamo lo sciopero delle operaie della Manifattura tabacchi, quello delle mondine o quello per il pane”. E pure la battaglia della trebbiatura, “quando uomini e donne tolsero le cinghie alle trebbie per evitare che i tedeschi prendessero il grano da portare in Germania”. E “parteciparono anche le donne”. La resistenza “è diventato un momento di grande emancipazione perché la donna nella famiglia qui non aveva un posto. Il nonno e la nonna erano i cosiddetti comandanti della famiglia. E nella gerarchia c’era un posto solo per la moglie del nonno, che si chiamava la resdora. Quando è iniziata la lotta di Liberazione anche le donne hanno cominciato a cercare di conquistare uno spazio dentro e fuori la famiglia. Prima non era così”.

    Quello che i fatti di Budrione, Migliarina e Fossoli dimostrano è che non c’erano solo i partigiani e le partigiane. Ma anche una società civile attiva e comunità mobilitate per la Resistenza. “Il 22 aprile”, continua Ferrari, “giorno della Liberazione di Carpi, abbiamo inaugurato la mostra ‘Noi stavamo con i partigiani’ che racconta proprio tutta la partecipazione popolare. Nella nostra zona più di 100 case sono diventate rifugio, nascondendo le persone nelle stalle o nei fienili. Ci fu una grande copertura della popolazione. Certo ci furono anche le spie, ma in generale ci fu una grande partecipazione. Anche di altre formazioni: cattolici, socialisti e naturalmente comunisti”. Proprio “la partecipazione popolare pacifica”, chiude Ferrari, “ha reso possibile la lotta partigiana”. E senza la resistenza de “la” Maria, “la” Vanda, “la” Isden e di tutte le altre, probabilmente il lembo di terra tra Correggio e Carpi avrebbe pianto altri sessanta uomini.

    *Foto da “Il coraggio delle donne. 12-23 marzo 1945” (a cura di Annamaria Loschi e di Anpi Carpi – Circolo E.Goldoni Budrione)

    Source: https://www.ilfattoquotidiano.it/2025/04/25/la-rivolta-pacifica-delle-donne-che-salvo-63-uomini-in-emilia-per-11-giorni-in-corteo-fino-alla-prigione-dopo-il-rastrellamento-dei-nazisti/7961324/
    Storie della Resistenza che ci piacciono. La rivolta pacifica delle donne che salvò 63 uomini in Emilia: "Per 11 giorni in corteo fino alla prigione dopo il rastrellamento dei nazisti" - Il Fatto Quotidiano Solo la determinazione delle donne ha permesso di salvare oltre 60 uomini: ecco cosa è successo Il 12 marzo 1945 i tedeschi fanno un rastrellamento tra Reggio e Modena. Le donne decidono di andare ogni giorno a piedi (circa due ore solo andata) per chiedere il rilascio di mariti e padri. Barbieri, che all'epoca aveva 13 anni: "Ricordo la paura". Ferrari (Anpi): "Qui la partecipazione popolare ha permesso la lotta partigiana" La rivolta pacifica delle donne che salvò 63 uomini in Emilia: “Per 11 giorni in corteo fino alla prigione dopo il rastrellamento dei nazisti” di Martina Castigliani Il 12 marzo 1945 i tedeschi fanno un rastrellamento tra Reggio e Modena. Le donne decidono di andare ogni giorno a piedi (circa due ore solo andata) per chiedere il rilascio di mariti e padri. Barbieri, che all'epoca aveva 13 anni: "Ricordo la paura". Ferrari (Anpi): "Qui la partecipazione popolare ha permesso la lotta partigiana" La nebbia, quel giorno, è fittissima. “Di quelle pesanti e piovose che penetrano nelle ossa”, racconta chi c’era. In Pianura Padana, nel lembo di terra che separa Correggio e Carpi, tra Reggio Emilia e Modena, vuol dire non riuscire a vedere oltre i propri piedi. Che il 12 marzo 1945 c’è un rastrellamento in corso, gli abitanti della frazione di Budrione lo capiscono dalle voci serrate dei comandi: ogni 10 metri c’è una testa e gli ordini si passano da uomo a uomo “come in una battuta di caccia”. Quello che avviene a un mese dalla Liberazione dal Nazifascismo è uno dei tanti episodi quasi sconosciuti di una guerra che ha travolto le campagne dove si nascondevano i partigiani. Questa volta però, l’epilogo è unico: a risolvere e impedire l’ennesimo eccidio sarà la resistenza civile e pacifica delle donne. Un atto raccontato in un libro preziosissimo del 2005, voluto dall’Anpi di Carpi (circolo E. Goldoni) e curato da Annamaria Loschi. Si intitola “Il coraggio delle donne” ed è un documento storico: contiene decine di testimonianze, molte delle quali di persone che ora non ci sono più, e che ricostruiscono un fatto mai arrivato sulle cronache nazionali. Ma che nelle campagne della bassa emiliana nessuno, finora, ha mai scordato. A raccontarlo sono i figli di chi quel giorno nero venne catturato: “Io avevo 13 anni e presero mio padre”, dice a ilfattoquotidiano.it Augusto Barbieri che ora di anni ne ha 93. “Anzi, di casa mia presero quattro uomini. Ricordo la paura. Tantissima paura”. Il rastrellamento lo fanno i tedeschi per vendicare l’agguato a un auto dei loro, avvenuto una settimana prima. A bordo c’erano un ufficiale e un sottoufficiale della Wehrmacht e un soldato mongolo: i primi due sapevano troppo e sono stati eliminati, il terzo ha chiesto e ottenuto di unirsi ai partigiani. I tedeschi non lo sanno e organizzano una controffensiva per liberarli che inizia alle 6 del mattino: catturano più di sessanta uomini (se ne contano almeno 63) e poi, in colonna, li portano in carcere a Correggio. Ma a quel punto succede qualcosa che nessun soldato nemico avrebbe potuto prevedere: i prigionieri vengono seguiti dalle donne in corteo che, sfidando armi e bombardamenti, ne chiedono il rilascio. Sono quasi due ore di cammino, quattro andata e ritorno, che ripeteranno ogni giorno per undici giorni. Fino alla liberazione. Il rastrellamento – Siamo a pochi km da Fossoli, dove sorgeva il campo di concentramento e transito verso i lager nazisti. In questa piana infinita, dove a sprazzi sorgono casolari e stalle, si nascondono i partigiani. Qui trovano accoglienza, mentre la vita quotidiana fatta di albe e lavoro va avanti. Il rastrellamento arriva all’improvviso e stravolge le comunità di Budrione, Fossoli e Migliarina. Se oggi sappiamo cosa è avvenuto, è grazie alle voci dei testimoni raccolte da Loschi in collaborazione con Augusto Barbieri, Pierino Bassoli e Lauro Cestelli. “Abbiamo cercato di parlare con più persone possibile”, ricorda Barbieri. Qui riportiamo alcune delle testimonianze contenute nel libro, ancora disponibile presso l’Anpi di Carpi. “Avevo 22 anni, quella mattina eravamo già tutti al lavoro”, dice Isden Morelli. “I tedeschi sono arrivati a casa nostra e hanno portato via con sé mio padre Bortolomeo e mio fratello Brenno”. Dante Bonatti parla del papà Dario che era “falegname e fabbro” ed era “anche addetto alle riparazioni delle armi dei partigiani. Eravamo tutti svegli”, “il rastrellamento è iniziato alle 5.30 del mattino”. Insieme ai tedeschi ci sono anche dei componenti della Brigata Nera di Carpi, che “in tuta grigioverde, avanzava nella nebbia fittissima. Questi ultimi erano ragazzi di 15-16 anni che noi conoscevamo, perché venivano a prendere i cocomeri durante la stagione. Per dissimulare la loro identità, però, tentavano di esprimersi in tedesco”. Luciano Bonatti ricorda che lo zio Dorno “venne preso dall’ultimo tedesco della fila mentre andava di corsa ad avvisare gli altri abitanti”. Bruno Dodi dice di essere rimasto in casa “sperando nella protezione della nebbia”. Ma è arrivato un tedesco che conosceva – “perché gli davamo qualcosa” – e al quale ha ubbidito, fidandosi che l’avrebbe liberato poi. “Invece la realtà è che io ero un ragazzo, ma i tedeschi erano uomini fatti, soldati abituati alla guerra”, dice. La maggior parte sono semplici contadini. Ma tra loro vengono catturati anche partigiani. Ad esempio, Bruno Cavazzoli che faceva la ronda e non riesce a prevenire il rastrellamento. Per “la nebbia tremenda”, “non abbiamo visto né sentito i tedeschi arrivare”. Cerca di scappare, ma viene fermato da due uomini a fucili spianati: “La mia prima reazione è stata molto umana”, confessa. “Ho sentito un rivolo caldo scendere lungo la gamba. È stato il massimo dell’angoscia che ho mai provato in vita mia”. Prima di essere catturato, prova a togliere la cravatta rossa per non provocarli: viene visto e schiaffeggiato. La rivolta delle donne – Il corteo dei 64 prigionieri parte da Budrione e va verso il carcere di Correggio: circa un’ora e mezza di cammino a piedi. “Disposti in fila per due o per quattro, i rastrellati si sono avviati senza nessun mezzo di trasporto”, raccontano. Erano tutti uomini, tranne una: fra di loro c’era Ardilia o Arsilia Goldoni, catturata mentre andava a lavorare al servizio della famiglia Pisa perché scambiata per una staffetta. Ma piano piano succede l’impensabile: lungo la strada il corteo comincia a ingrossarsi. “Il corteo, formato da tedeschi, fascisti e prigionieri non camminava solo: nonostante il grande pericolo, le donne hanno iniziato a seguirlo, chiamandosi l’una con l’altra”, racconta Vinicio Magnanini. Che ricorda come quel gesto, così forte e d’autonomia, avesse radici lontane. “Non si trattava tuttavia di una manifestazione semplice e spontanea: dietro c’era un’organizzazione politica e culturale, messa in atto da molti mesi, che poteva in questo frangente dare il coraggio alle donne, da sempre abituate a lavorare stando in secondo piano, (…) di affrontare e sfidare per chilometri soldati di un esercito feroce, ormai incalzato dagli eventi e per questo tanto più pericoloso”. Secondo i testimoni, il corteo a Correggio raduna più di 500 donne. Maria Allegretti racconta: “Un giorno il comandante partigiano, mi disse: devi organizzare le donne e dovete andare a Correggio a manifestare per gli uomini di Budrione! lo avevo mobilitato tutte le donne della zona e loro venivano volentieri, perché avevano tutte il marito, o un figlio, o un parente in prigione”. Prima di arrivare a Correggio, Allegretti avverte: state attente, perché potrebbero sparare dai tetti. “Loro però erano tutte con me perché volevano tentare di liberare i propri cari. La nostra manifestazione era pacifica: non avevamo armi, ma eravamo molto determinate. E cosi è stato fatto: noi, staffette e simpatizzanti, siamo andate a casa dei contadini a chiedere il cavallo, il biroccio, ma la maggioranza quel giorno è andata a piedi”. Ad un certo punto, i tedeschi sparano qualche colpo sulle manifestanti per disperderle: la tensione si alza. “Li seguimmo per circa 3 o 4 Km”, continua Zoe Busi. “Poi, in un momento di disperazione, incominciammo tutte a parlare: chiedevamo ai tedeschi di rilasciare i prigionieri”. È un gesto di sfida che richiede un enorme coraggio e non ci pensano due volte. “Zelmira Marchi si avvicinò loro e rimproverò il comportamento crudele. Un tedesco le lanciò una bomba a mano”. Anche Bruna Malavasi rimane ferita: “Io avevo 17 anni, ma in campagna allora si cresceva in fretta… Non mi ricordo neanche da dove sono partita io o chi mi avesse informata: so solo che con tutto un passaggio di voci ci siamo radunate in tante donne. Proprio in quella località ci hanno sparato: a me è arrivata una scheggia nell’avambraccio sinistro; ho sentito gli spari e mi sono trovata sanguinante. Mi è rimasto il segno, ancora oggi, dopo tanti anni”. Il corteo tuttavia riesce da arrivare fino a Correggio e qui le 500 donne che ormai si sono raggruppate inscenano una grande manifestazione davanti alla casa del fascio adibita a prigione. Lì, iniziano a sparare e arrestano Allegretti: “Le donne si sono spaventate moltissimo e si sono tutte sparpagliate, mentre io ed altre staffette siamo rimaste al centro della strada. Mi si sono avvicinati due fascisti che ci hanno accusate di fare una manifestazione senza l’autorizzazione, ma noi siamo ugualmente entrate nel cortile della prigione per fare sentire le nostre proteste”. Allora, vanno a cercare il comandante della Brigata Nera di Correggio, Alberto Giorgi: “Le donne sono entrate nel cortile”, dice Vanda Veroni, “e hanno tirato giù dal letto il comandante, anche se era indisposto, in modo che si interessasse della cosa. Lui fu costretto a occuparsi del fatto”. La resistenza civile e pacifica delle donne va avanti per undici giorni. Sono undici giorni di cortei che partivano al mattino e rientravano a metà giornata. Sempre e solo animati dalle donne. Di tutte le età. “Per tutto il tempo che rimasero chiusi, noi, con qualsiasi mezzo, carri, biciclette poche o a piedi, eravamo là davanti alla prigione“. Racconta ancora Vanda che a pranzo, spesso, si fermavano dal salumificio Veroni che dava loro “una minestra” e la signora cercava di tranquillizzarle. Si erano schierati con loro. Per le donne il lavoro era doppio: quando tornavano a casa, dovevano fare anche tutto quello che di solito spettava agli uomini nelle stalle. “Fu un periodo durissimo”. Maria viene liberata dopo tre giorni e solo perché nega di conoscere le altre: quando viene scortata dai soldati mongoli e tutte le vengono incontro, riesce a salvarsi perché parla in dialetto e loro non la capiscono. Barbieri ricorda molto bene quei giorni: “Come adesso”, dice a ilfattoquotidiano.it. “Sarò anche in difficoltà a muovere la lingua, ma ricordo tutto. Anche perché di casa mia avevo quattro prigionieri. E io, a 13 anni, all’improvviso ero rimasto l’uomo più grande della casa. E allora restavo a casa a tenere dietro alle mucche. Mia mamma e le mie zie andavano tutte le mattine”. E aggiunge: “All’inizio era molto difficile perché le donne si erano divise in commissioni e andavano a parlare con le varie autorità. Ma loro facevano degli ultimatum e dicevano che se non liberavamo i tre soldati, loro avrebbero fucilato tutti i prigionieri”. E poi, dice, “erano semi-analfabete e andare a parlare per una cosa così importante non era facile”. Un giorno, anche il piccolo Barbieri si unisce al corteo e riesce a vedere il padre: “Papà quando vi liberano?”, gli chiede. “E sapete cosa mi ha risposto? Quando tirano via il catenaccio”, ride. “Aveva fatto una battuta per non spaventarmi. Anche perché erano giorni di grande paura”. Si temeva che gli uomini non sarebbero usciti vivi, che ci sarebbe stata una strage. “Ma anche le colonne di donne nelle campagne ogni mattina erano un pericolo perché giravano gli apparecchi e potevano bombardarle. Il loro impegno è stato molto importante”, chiude. Dopo i primi giorni, vengono individuati e fucilati cinque partigiani: Mauro Bompani, Enzo Cremonini, Ettore Giovanardi. Ferruccio Tusberti, Augusto Armani. Poi iniziano lunghe ed estenuanti trattative: i tedeschi vogliono indietro i tre, ma non sanno che è impossibile. Alla fine avviene la liberazione dei sessanta, grazie all’intervento del commissario prefettizio di Carpi Enzo Scaltriti, che si dimostra aperto ai partigiani, e alla mediazione di monsignor Giuseppe Bonacini. Ma soprattutto grazie alla pressione esercitata dalla comunità femminile che non ha mai ceduto. Bruno racconta gli attimi successivi alla liberazione: “Siamo andati di corsa dalle donne che ci aspettavano fuori. Tutto il rientro è stata una gioia immensa: per la strada ci portavano dei pezzi di gnocco fritto e, quando siamo arrivati a Budrione, c’era una festa inimmaginabile. Le campane suonavano a distesa”. Dice Vanda: “Eravamo tutte contente. Durante il cammino, mi ricordo che un tale è salito sul rimorchio, anche se io ero davanti sul biroccio e poi voleva prendere la guida. Io allora mi sono detta: per undici giorni sono venuta qua, quindi adesso sto davanti io”. Parole importantissime, di un cambiamento che era avvenuto anche fuori dalla prigione. E ancora: “Io ed alcune signore, con le gambe penzoloni dal carretto, facevamo quasi ridere. Tutta la gente, lungo le strade, batteva le mani, con le lacrime agli occhi perché tutti erano soddisfatti di vedere che era stata una bella cosa che l’avventura era finita bene”. La partecipazione popolare oltre i partigiani – I racconti di chi c’era sono come fotografie che rimangono nel tempo. Scatti di un avvenimento che ha fatto la storia locale, ma non ha trovato abbastanza spazio nei libri di scuola o sui giornali. Il lavoro di memoria è stato possibile, “grazie ad Annamaria Loschi, insegnante animatrice dell’Associazione Memoria Storica di Budrione”, morta nel 2024, ricorda Lucio Ferrari, presidente dell’Anpi di Carpi. “Lei era appassionatissima”, dice. “Budrione è stato un centro di Resistenza molto forte qui nel Carpigiano e nella zona partigiana della provincia di Modena che è quella più vivace. Qui ci sono stati molti caduti: abbiamo 57 tra cippi e lapidi. In occasione dell’80esimo anniversario della Liberazione, siamo andati a rendere omaggio a tutti. E il 23 marzo scorso, abbiamo ricordato il rastrellamento”.Questo episodio, racconta, “è stata un’esperienza così forte che è rimasta” nel ricordo della comunità. “Da parte delle donne c’è voluto un grande coraggio perché lì c’erano tedeschi e fascisti che si sentivano un po’ accerchiati ed erano particolarmente aggressivi e violenti. Soprattutto nei confronti delle donne”. E la loro rivolta “è stata fondamentale per fare pressione e per liberare i prigionieri. È stata decisiva”. Ma in tutti gli anni della Resistenza, le donne hanno avuto un ruolo importante. Anche e non solo tra i partigiani: “Ricordiamo lo sciopero delle operaie della Manifattura tabacchi, quello delle mondine o quello per il pane”. E pure la battaglia della trebbiatura, “quando uomini e donne tolsero le cinghie alle trebbie per evitare che i tedeschi prendessero il grano da portare in Germania”. E “parteciparono anche le donne”. La resistenza “è diventato un momento di grande emancipazione perché la donna nella famiglia qui non aveva un posto. Il nonno e la nonna erano i cosiddetti comandanti della famiglia. E nella gerarchia c’era un posto solo per la moglie del nonno, che si chiamava la resdora. Quando è iniziata la lotta di Liberazione anche le donne hanno cominciato a cercare di conquistare uno spazio dentro e fuori la famiglia. Prima non era così”. Quello che i fatti di Budrione, Migliarina e Fossoli dimostrano è che non c’erano solo i partigiani e le partigiane. Ma anche una società civile attiva e comunità mobilitate per la Resistenza. “Il 22 aprile”, continua Ferrari, “giorno della Liberazione di Carpi, abbiamo inaugurato la mostra ‘Noi stavamo con i partigiani’ che racconta proprio tutta la partecipazione popolare. Nella nostra zona più di 100 case sono diventate rifugio, nascondendo le persone nelle stalle o nei fienili. Ci fu una grande copertura della popolazione. Certo ci furono anche le spie, ma in generale ci fu una grande partecipazione. Anche di altre formazioni: cattolici, socialisti e naturalmente comunisti”. Proprio “la partecipazione popolare pacifica”, chiude Ferrari, “ha reso possibile la lotta partigiana”. E senza la resistenza de “la” Maria, “la” Vanda, “la” Isden e di tutte le altre, probabilmente il lembo di terra tra Correggio e Carpi avrebbe pianto altri sessanta uomini. *Foto da “Il coraggio delle donne. 12-23 marzo 1945” (a cura di Annamaria Loschi e di Anpi Carpi – Circolo E.Goldoni Budrione) Source: https://www.ilfattoquotidiano.it/2025/04/25/la-rivolta-pacifica-delle-donne-che-salvo-63-uomini-in-emilia-per-11-giorni-in-corteo-fino-alla-prigione-dopo-il-rastrellamento-dei-nazisti/7961324/
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  • Ci hanno chiesto sobrietà. Ma da troppo tempo ci vengono imposte condizioni e limitazioni in un Paese che sembra aver dimenticato uno dei suoi valori fondanti: la libertà.

    E come in ogni battaglia morale e civile, non sempre serve alzare la voce. Sono i valori, quando sono autentici, a farsi sentire con forza attraverso le nostre azioni.

    Che sia un 25 Aprile di memoria e dignità, ma soprattutto di presenza. In piazza, con sincerità, per dire no ai conflitti, al riarmo, e a una politica che alimenta divisioni invece di costruire futuro.
    Auguri Italia (ne hai bisogno...)

    #25Aprile #Liberazione #Antifascismo #MemoriaAttiva #NoAlRiarmo #UnitiperlaPace #ResistenzaOggi #Democrazia #Libertà
    Ci hanno chiesto sobrietà. Ma da troppo tempo ci vengono imposte condizioni e limitazioni in un Paese che sembra aver dimenticato uno dei suoi valori fondanti: la libertà. E come in ogni battaglia morale e civile, non sempre serve alzare la voce. Sono i valori, quando sono autentici, a farsi sentire con forza attraverso le nostre azioni. Che sia un 25 Aprile di memoria e dignità, ma soprattutto di presenza. In piazza, con sincerità, per dire no ai conflitti, al riarmo, e a una politica che alimenta divisioni invece di costruire futuro. Auguri Italia (ne hai bisogno...) #25Aprile #Liberazione #Antifascismo #MemoriaAttiva #NoAlRiarmo #UnitiperlaPace #ResistenzaOggi #Democrazia #Libertà
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  • IN POCHE PAROLE TUTTO IL PIANO. GRAZIE @RobertKennedyJr
    RFK JR: “L'OMS, BILL GATES E I VACCINI COVID: È OLTRE IL CRIMINALE.”

    In soli 90 secondi, RFK Jr. collega i puntini:
    Il COVID non è stata solo una pandemia: è stata una presa di potere.

    L'OMS ha preso il controllo.

    Gates lo ha finanziato.

    E il mondo è stato iniettato.

    "Bill Gates non è solo un donatore: è il più grande mediatore di potere non eletto dell'OMS".

    COSA SIGNIFICA:

    La salute globale è stata inquinata
    La sovranità è stata venduta
    E il tuo corpo divenne il campo di battaglia

    Non si trattava di sicurezza pubblica.
    Si trattava di controllo, profitto e di un reset globale.

    LA VERITÀ NON È PIÙ UNA TEORIA, È UN CONTO.

    https://x.com/OrtigiaP/status/1914961203421380710?t=STB62alraTmHa-7pVrL_jg&s=19
    IN POCHE PAROLE TUTTO IL PIANO. GRAZIE @RobertKennedyJr 🚨 RFK JR: “L'OMS, BILL GATES E I VACCINI COVID: È OLTRE IL CRIMINALE.” 🚨 In soli 90 secondi, RFK Jr. collega i puntini: 💉 Il COVID non è stata solo una pandemia: è stata una presa di potere. 🌐 L'OMS ha preso il controllo. 💰 Gates lo ha finanziato. 🧬 E il mondo è stato iniettato. 🗣️ "Bill Gates non è solo un donatore: è il più grande mediatore di potere non eletto dell'OMS". 📢 COSA SIGNIFICA: ⚠️ La salute globale è stata inquinata ⚠️ La sovranità è stata venduta ⚠️ E il tuo corpo divenne il campo di battaglia 🔥 Non si trattava di sicurezza pubblica. Si trattava di controllo, profitto e di un reset globale. 🚨 LA VERITÀ NON È PIÙ UNA TEORIA, È UN CONTO. https://x.com/OrtigiaP/status/1914961203421380710?t=STB62alraTmHa-7pVrL_jg&s=19
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  • IL FURBETTO. SPERIAMO PAGHI!

    https://www.corriere.it/tecnologia/25_aprile_16/zuckerberg-a-processo-l-acquisto-di-instagram-e-dura-fare-nuove-app-per-chiudere-la-causa-ha-offerto-fino-a-un-miliardo-di-dollari-6814aefb-27ef-40f9-beb9-937e86570xlk_amp.shtml

    Secondo le indiscrezioni del Wall Street Journal, prima dell'inizio del processo Zuckerberg avrebbe provato a trovare un accordo con la Federal Trade Commission. La difesa in aula

    In una mail, nel 2012, Mark Zuckerberg discuteva con l’allora direttore finanziario di Facebook l’acquisizione di Instagram. Una mossa definita utile per «neutralizzare un potenziale concorrente». Un anno dopo ragionava con un altro dirigente sulla crescita di WhatsApp. Si parla di «notti insonni» per capire come migliorare la propria messaggistica. «Ora o mai più». Due startup, due idee poco più che embrionali che potevano rappresentare una minaccia per gli affari della società che oggi chiamiamo Meta. E che proprio da Meta hanno finito per essere comprate.

    Sono alcune delle prove raccolte in anni di indagini dalla Federal Trade Commission, l’agenzia che controlla il commercio negli Usa, per dimostrare come il colosso dei social media abbia usato pratiche anticoncorrenziali per costruire un monopolio illegale. Un processo, quello iniziato lunedì in un tribunale di Washington, che potrebbe incrinare il business della società. Anzi, potrebbe distruggerlo: se il giudice James Boasberg confermerà le accuse potrebbe anche chiedere a Meta di rinunciare alle sue colonne portanti: Instagram e Whatsapp.

    Due acquisizioni — nel 2012 e nel 2014 — che secondo la Ftc sono state concluse mettendo sul piatto cifre maggiorate (un miliardo e 19 miliardi di dollari) per soffocare potenziali concorrenti. Seguendo la strategia «buy or bury», compra o sotterra.

    La difesa di Meta ha ricordato come le acquisizioni sono state ai tempi approvate dalla stessa Ftc e hanno portato le piattaforme a fiorire e diventare realtà molto diverse da quelle originarie. E che, oggi, si muovono in un panorama dove la competizione non manca: è soprattutto la presenza (e concorrenza) di TikTok a dimostrare la salute del mercato.

    Ci sarà tempo di ascoltare tutti i protagonisti. Ma il primo chiamato a testimoniare è Zuckerberg. Nei primi due giorni di processo ha passato ore a rispondere alle domande sulle sue parole all’epoca delle acquisizioni. E sulle motivazioni che stavano dietro. Che si possono riassumere con una frase detta ieri dal ceo: «Costruire nuove app è difficile». Ha ammesso che ha voluto Instagram perché, in fondo, era migliore di Facebook: «L’app per la fotocamera funzionava meglio quindi ho pensato di comprarla. Quando abbiamo provato a costruirne una, non ha avuto successo». Ancora su Instagram è stata presentata una mail del 2018 dove Zuckerberg, preoccupato per il successo dell’app e degli effetti su Facebook, avrebbe ipotizzato di separare le due divisioni «e forse Whatsapp nei prossimi 5-10 anni». Si è poi parlato di Snapchat e dell'offerta fatta al fondatore (6 miliardi) per comprarla. Offerta rifiutata. Ma, assicura Zuckerberg, «se l'avessi comprata, probabilmente ne avrei accelerato la crescita».

    In totale la deposizione del ceo di Meta è durata circa sei ore. Dopo di lui, toccherà alla sua ex Chief Operating Officer Sheryl Sandberg, e poi ai fondatori di Instagram (Kevin Systrom e Mike Krieger) e WhatsApp (Jan Koum e Brian Acton), Sono mesi che Zuckerberg prova a evitare il processo con un accordo. Ma a nulla sembrano essere serviti gli sforzi per guadagnare il favore di Trump. C'è da precisare che era stato proprio durante l'amministrazione Trump (la prima) che le indagini erano iniziate, nel 2020. Durante i quattro anni di Biden alla Casa Bianca la battaglia della Federal Trade Commission contro le Big Tech non ha fatto che rafforzarsi. Ora, con il nuovo inquilino e un nuovo capo dell'agenzia - il repubblicano Andrew Ferguson - la speranza era quella di poter risolvere la causa senza passare dal tribunale. Secondo le indiscrezioni del Wall Street Journal, Zuckerberg a fine marzo avrebbe offerto 450 milioni di dollari per accordarsi, cifra poi alzata fino a un miliardo. La richiesta di Ferguson e della Ftc sarebbe stata molto più elevata: 30 miliardi. Il WsJournal aggiunge anche che Trump «in vari momenti è apparso aperto» a trovare una via di negoziazione e avrebbe chiesto come potrebbe funzionare. Il processo, in ogni caso, è iniziato e, se le accuse fossero confermate, potrebbe portare al primo smembramento di una società dopo 40 anni. L’ultima è stata At&t: era il 1982.
    IL FURBETTO. SPERIAMO PAGHI! https://www.corriere.it/tecnologia/25_aprile_16/zuckerberg-a-processo-l-acquisto-di-instagram-e-dura-fare-nuove-app-per-chiudere-la-causa-ha-offerto-fino-a-un-miliardo-di-dollari-6814aefb-27ef-40f9-beb9-937e86570xlk_amp.shtml Secondo le indiscrezioni del Wall Street Journal, prima dell'inizio del processo Zuckerberg avrebbe provato a trovare un accordo con la Federal Trade Commission. La difesa in aula In una mail, nel 2012, Mark Zuckerberg discuteva con l’allora direttore finanziario di Facebook l’acquisizione di Instagram. Una mossa definita utile per «neutralizzare un potenziale concorrente». Un anno dopo ragionava con un altro dirigente sulla crescita di WhatsApp. Si parla di «notti insonni» per capire come migliorare la propria messaggistica. «Ora o mai più». Due startup, due idee poco più che embrionali che potevano rappresentare una minaccia per gli affari della società che oggi chiamiamo Meta. E che proprio da Meta hanno finito per essere comprate. Sono alcune delle prove raccolte in anni di indagini dalla Federal Trade Commission, l’agenzia che controlla il commercio negli Usa, per dimostrare come il colosso dei social media abbia usato pratiche anticoncorrenziali per costruire un monopolio illegale. Un processo, quello iniziato lunedì in un tribunale di Washington, che potrebbe incrinare il business della società. Anzi, potrebbe distruggerlo: se il giudice James Boasberg confermerà le accuse potrebbe anche chiedere a Meta di rinunciare alle sue colonne portanti: Instagram e Whatsapp. Due acquisizioni — nel 2012 e nel 2014 — che secondo la Ftc sono state concluse mettendo sul piatto cifre maggiorate (un miliardo e 19 miliardi di dollari) per soffocare potenziali concorrenti. Seguendo la strategia «buy or bury», compra o sotterra. La difesa di Meta ha ricordato come le acquisizioni sono state ai tempi approvate dalla stessa Ftc e hanno portato le piattaforme a fiorire e diventare realtà molto diverse da quelle originarie. E che, oggi, si muovono in un panorama dove la competizione non manca: è soprattutto la presenza (e concorrenza) di TikTok a dimostrare la salute del mercato. Ci sarà tempo di ascoltare tutti i protagonisti. Ma il primo chiamato a testimoniare è Zuckerberg. Nei primi due giorni di processo ha passato ore a rispondere alle domande sulle sue parole all’epoca delle acquisizioni. E sulle motivazioni che stavano dietro. Che si possono riassumere con una frase detta ieri dal ceo: «Costruire nuove app è difficile». Ha ammesso che ha voluto Instagram perché, in fondo, era migliore di Facebook: «L’app per la fotocamera funzionava meglio quindi ho pensato di comprarla. Quando abbiamo provato a costruirne una, non ha avuto successo». Ancora su Instagram è stata presentata una mail del 2018 dove Zuckerberg, preoccupato per il successo dell’app e degli effetti su Facebook, avrebbe ipotizzato di separare le due divisioni «e forse Whatsapp nei prossimi 5-10 anni». Si è poi parlato di Snapchat e dell'offerta fatta al fondatore (6 miliardi) per comprarla. Offerta rifiutata. Ma, assicura Zuckerberg, «se l'avessi comprata, probabilmente ne avrei accelerato la crescita». In totale la deposizione del ceo di Meta è durata circa sei ore. Dopo di lui, toccherà alla sua ex Chief Operating Officer Sheryl Sandberg, e poi ai fondatori di Instagram (Kevin Systrom e Mike Krieger) e WhatsApp (Jan Koum e Brian Acton), Sono mesi che Zuckerberg prova a evitare il processo con un accordo. Ma a nulla sembrano essere serviti gli sforzi per guadagnare il favore di Trump. C'è da precisare che era stato proprio durante l'amministrazione Trump (la prima) che le indagini erano iniziate, nel 2020. Durante i quattro anni di Biden alla Casa Bianca la battaglia della Federal Trade Commission contro le Big Tech non ha fatto che rafforzarsi. Ora, con il nuovo inquilino e un nuovo capo dell'agenzia - il repubblicano Andrew Ferguson - la speranza era quella di poter risolvere la causa senza passare dal tribunale. Secondo le indiscrezioni del Wall Street Journal, Zuckerberg a fine marzo avrebbe offerto 450 milioni di dollari per accordarsi, cifra poi alzata fino a un miliardo. La richiesta di Ferguson e della Ftc sarebbe stata molto più elevata: 30 miliardi. Il WsJournal aggiunge anche che Trump «in vari momenti è apparso aperto» a trovare una via di negoziazione e avrebbe chiesto come potrebbe funzionare. Il processo, in ogni caso, è iniziato e, se le accuse fossero confermate, potrebbe portare al primo smembramento di una società dopo 40 anni. L’ultima è stata At&t: era il 1982.
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  • Dall’università di Kiev al fronte, la storia di Alexandr, professore universitario della capitale ucraina, oggi al fianco dei russi per liberare il suo paese.

    “Yakuza” - nome di battaglia del professore - è un cittadino ucraino che come migliaia di suoi connazionali è stato caricato su un pulmino dai reclutatori dell’esercito e spedito in una caserma, dove è stato fatto diventare un soldato.

    L’anno scorso, a fine semestre, insieme ad altri 41 colleghi, è stato richiamato alle armi e dopo un breve addestramento di base gli ufficiali gli hanno detto che sarebbe stato trasferito in un’altra regione per affrontare un corso di specializzazione. Al posto che imboccare la strada per Dnipro, dove avrebbero dovuto prepararlo alla guerra, il veicolo ha tirato dritto verso la regione di Donetsk, scaricandolo al fronte, allo sbaraglio, senza esperienza e competenze.

    Alexandr, se non fosse stato per la mobilitazione ucraina, non si sarebbe mai sognato di indossare un’uniforme o di essere chiamato con un nome di battaglia. Avrebbe proseguito volentieri a insegnare il giapponese negli atenei della capitale ucraina: “il mio mestiere è quello di insegnare, non uccidere”. Ma nessuno gli ha chiesto se volesse rischiare la vita per Zelensky, lo hanno reclutato senza troppe cerimonie e spedito all’inferno. I battaglioni come il suo, composti da gente catturata per strada o sul posto di lavoro, vengono inviati nei punti più caldi del fronte, come carne da cannone.

    Alexanrd è stato abbandonato dai propri comandanti e poi catturato dai russi. Nel centro di detenzione per i prigionieri di guerra ha scoperto dell’esistenza del reparto “Krivonos”, composto da centinaia di ex soldati ucraini (anche loro arresisi al fronte) che ora combattono “per liberare il proprio paese dai nemici del popolo che si trovano a Kiev, al governo”.

    In quei pochi giorni al fronte aveva visto la morte in faccia, aveva provato paura come mai prima in vita sua. Una volta divenuto prigioniero avrebbe potuto scegliere di rimanere al sicuro, lontano da rischi, aspettando uno scambio. Eppure lì, per la prima volta, la scelta di indossare l’uniforme è stata volontaria.

    “L’Ucraina deve essere liberata, Zelensky ed i funzionari dei centri di reclutamento che ci hanno mandato al massacro devono pagare per il genocidio del popolo ucraino”, sostiene Alexandr, che ammette di non aver mai sostenuto il corso politico distruttivo dell’Ucraina post Maidan, ma anche di aver sempre avuto paura di sostenere le sue posizioni. Dopo quello che ha vissuto, non vuole più che qualcuno decida per lui.

    https://youtu.be/5CJWvqiXIbM?feature=shared
    🇺🇦🇷🇺 Dall’università di Kiev al fronte, la storia di Alexandr, professore universitario della capitale ucraina, oggi al fianco dei russi per liberare il suo paese. “Yakuza” - nome di battaglia del professore - è un cittadino ucraino che come migliaia di suoi connazionali è stato caricato su un pulmino dai reclutatori dell’esercito e spedito in una caserma, dove è stato fatto diventare un soldato. L’anno scorso, a fine semestre, insieme ad altri 41 colleghi, è stato richiamato alle armi e dopo un breve addestramento di base gli ufficiali gli hanno detto che sarebbe stato trasferito in un’altra regione per affrontare un corso di specializzazione. Al posto che imboccare la strada per Dnipro, dove avrebbero dovuto prepararlo alla guerra, il veicolo ha tirato dritto verso la regione di Donetsk, scaricandolo al fronte, allo sbaraglio, senza esperienza e competenze. Alexandr, se non fosse stato per la mobilitazione ucraina, non si sarebbe mai sognato di indossare un’uniforme o di essere chiamato con un nome di battaglia. Avrebbe proseguito volentieri a insegnare il giapponese negli atenei della capitale ucraina: “il mio mestiere è quello di insegnare, non uccidere”. Ma nessuno gli ha chiesto se volesse rischiare la vita per Zelensky, lo hanno reclutato senza troppe cerimonie e spedito all’inferno. I battaglioni come il suo, composti da gente catturata per strada o sul posto di lavoro, vengono inviati nei punti più caldi del fronte, come carne da cannone. Alexanrd è stato abbandonato dai propri comandanti e poi catturato dai russi. Nel centro di detenzione per i prigionieri di guerra ha scoperto dell’esistenza del reparto “Krivonos”, composto da centinaia di ex soldati ucraini (anche loro arresisi al fronte) che ora combattono “per liberare il proprio paese dai nemici del popolo che si trovano a Kiev, al governo”. In quei pochi giorni al fronte aveva visto la morte in faccia, aveva provato paura come mai prima in vita sua. Una volta divenuto prigioniero avrebbe potuto scegliere di rimanere al sicuro, lontano da rischi, aspettando uno scambio. Eppure lì, per la prima volta, la scelta di indossare l’uniforme è stata volontaria. “L’Ucraina deve essere liberata, Zelensky ed i funzionari dei centri di reclutamento che ci hanno mandato al massacro devono pagare per il genocidio del popolo ucraino”, sostiene Alexandr, che ammette di non aver mai sostenuto il corso politico distruttivo dell’Ucraina post Maidan, ma anche di aver sempre avuto paura di sostenere le sue posizioni. Dopo quello che ha vissuto, non vuole più che qualcuno decida per lui. https://youtu.be/5CJWvqiXIbM?feature=shared
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  • SAN SIRO: - nostalgia + STRATEGIA ⚽️

    La partita per San Siro non è finita.
    Ma siamo entrati in un’altra fase del gioco: quella in cui serve testa fredda, visione chiara e pressione nei punti giusti.
    Non bastano più i ricordi, i racconti di partite leggendarie, le emozioni vissute sugli spalti.Non è (più) una battaglia di cuore. È una questione di strategia.

    Perché San Siro oggi non è solo uno stadio. È diventato un asset immobiliare da abbattere per far spazio a un’operazione speculativa che non porta nessun vero vantaggio alla città.

    E allora dobbiamo smettere di inseguire la narrazione di chi comanda il gioco, e iniziare a parlare a chi può davvero cambiare il risultato: i TIFOSI.

    Perché senza tifosi non c’è sistema che regga.Senza di loro non ci sono sponsor, né abbonamenti, né visibilità.E allora facciamoci una domanda scomoda:perché continuare a finanziare chi distrugge la tua memoria sportiva e il patrimonio della tua città

    Serve una nuova mentalità:

    ⚫️ Boicottaggio simbolico, intelligente.

    Lanciare una campagna civica in cui si invitano i tifosi a non rinnovare gli abbonamenti, non acquistare merchandising ufficiale e non partecipare ad attivazioni promozionali legate alle società, fino a quando non verrà ritirato il progetto di demolizione.

    ⚫️ Campagne di pressione sui partner commerciali.

    Creare un dossier pubblico e una lettera aperta, firmata da cittadini, urbanisti, intellettuali e sportivi, indirizzata a sponsor e brand legati a Milan e Inter, chiedendo trasparenza e una presa di posizione.

    ⚫️ Contenuti chiari, divulgativi, che raccontino la dinamica dei fatti dietro questo progetto.

    Produrre micro-video, caroselli, infografiche e brevi podcast che raccontino: la VERITÀ.

    E soprattutto, una "comunità attiva" che smetta di subire e inizi a rispondere con metodo.

    ❗️Non si vince con uno stadio nuovo.Si vince con una società che rispetta la sua storia.Ed è proprio lì che dobbiamo colpire.

    La memoria non si abbatte.La cultura urbana non si demolisce.San Siro non è un ostacolo. È un simbolo.

    Facciamoci sentire. Adesso.

    #SaveSanSiro #SìMeazza #SanSiroPatrimonio #StopSpeculazione #MilanoÈDeiCittadini #MeazzaNonSiTocca #CulturaVsCemento #TifosiPerSanSiro #NonÈSoloCalcio #DifendiamoSanSiro
    SAN SIRO: - nostalgia + STRATEGIA ⚽️✊ La partita per San Siro non è finita. Ma siamo entrati in un’altra fase del gioco: quella in cui serve testa fredda, visione chiara e pressione nei punti giusti. Non bastano più i ricordi, i racconti di partite leggendarie, le emozioni vissute sugli spalti.Non è (più) una battaglia di cuore. È una questione di strategia. Perché San Siro oggi non è solo uno stadio. È diventato un asset immobiliare da abbattere per far spazio a un’operazione speculativa che non porta nessun vero vantaggio alla città. E allora dobbiamo smettere di inseguire la narrazione di chi comanda il gioco, e iniziare a parlare a chi può davvero cambiare il risultato: i TIFOSI. Perché senza tifosi non c’è sistema che regga.Senza di loro non ci sono sponsor, né abbonamenti, né visibilità.E allora facciamoci una domanda scomoda:perché continuare a finanziare chi distrugge la tua memoria sportiva e il patrimonio della tua città⁉️ Serve una nuova mentalità: ⚫️ Boicottaggio simbolico, intelligente. Lanciare una campagna civica in cui si invitano i tifosi a non rinnovare gli abbonamenti, non acquistare merchandising ufficiale e non partecipare ad attivazioni promozionali legate alle società, fino a quando non verrà ritirato il progetto di demolizione. ⚫️ Campagne di pressione sui partner commerciali. Creare un dossier pubblico e una lettera aperta, firmata da cittadini, urbanisti, intellettuali e sportivi, indirizzata a sponsor e brand legati a Milan e Inter, chiedendo trasparenza e una presa di posizione. ⚫️ Contenuti chiari, divulgativi, che raccontino la dinamica dei fatti dietro questo progetto. Produrre micro-video, caroselli, infografiche e brevi podcast che raccontino: la VERITÀ. 👉 E soprattutto, una "comunità attiva" che smetta di subire e inizi a rispondere con metodo. ❗️Non si vince con uno stadio nuovo.Si vince con una società che rispetta la sua storia.Ed è proprio lì che dobbiamo colpire. La memoria non si abbatte.La cultura urbana non si demolisce.San Siro non è un ostacolo. È un simbolo. Facciamoci sentire. Adesso. #SaveSanSiro #SìMeazza #SanSiroPatrimonio #StopSpeculazione #MilanoÈDeiCittadini #MeazzaNonSiTocca #CulturaVsCemento #TifosiPerSanSiro #NonÈSoloCalcio #DifendiamoSanSiro
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  • SIAMO ALLA FOLLIA
    LA GERMANIA HA APPENA INCARCERATO UN GIORNALISTA PER UN MEME Sì, davvero.
    David Bendels, direttore del Deutschland-Kurier, condannato a 7 MESI (con pena sospesa) per aver preso in giro il Ministro degli Interni con un meme satirico.

    Il suo crimine?
    Osare insinuare che Nancy Faeser "odia la libertà di parola".
    DIMOSTRARE IL SUO PUNTO DI VISTA IN TEMPO REALE.

    COSA SIGNIFICA:

    In Germania la satira è ora illegale.
    Criticare il governo = un atto criminale.
    La libertà di parola è MORTA nel cuore dell'Europa.

    Questo è il modello globalista.
    Criminalizzare il dissenso.
    Incarcerare l'opposizione.
    Cancellare l'umorismo, la verità e la resistenza.

    OGGI È LA GERMANIA.
    DOMANI È OVUNQUE.
    Se un meme può farti finire in prigione, cosa ti dice questo sul regime?
    L'autoritarismo non arriverà.

    È QUI.
    La libertà di parola è il campo di battaglia finale.
    Scegli una parte.
    SIAMO ALLA FOLLIA 🚨 LA GERMANIA HA APPENA INCARCERATO UN GIORNALISTA PER UN MEME 🚨Sì, davvero. 🔴 David Bendels, direttore del Deutschland-Kurier, condannato a 7 MESI (con pena sospesa) per aver preso in giro il Ministro degli Interni con un meme satirico. Il suo crimine? 🗣️ Osare insinuare che Nancy Faeser "odia la libertà di parola". 🔥 DIMOSTRARE IL SUO PUNTO DI VISTA IN TEMPO REALE. 🔥 📢 COSA SIGNIFICA: ⚠️ In Germania la satira è ora illegale. ⚠️ Criticare il governo = un atto criminale. ⚠️ La libertà di parola è MORTA nel cuore dell'Europa. 💥 Questo è il modello globalista. 💥 Criminalizzare il dissenso. 💥 Incarcerare l'opposizione. 💥 Cancellare l'umorismo, la verità e la resistenza. 🚨 OGGI È LA GERMANIA. 🚨 DOMANI È OVUNQUE. Se un meme può farti finire in prigione, cosa ti dice questo sul regime? L'autoritarismo non arriverà. È QUI. La libertà di parola è il campo di battaglia finale. Scegli una parte.
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  • TRUMP FERMA IL MASSACRO! Putin obbedisce all'ordine di Trump: migliaia di soldati ucraini salvati dal bagno di sangue del Deep State a Kursk!

    Trump ha appena infranto l'illusione. Il teatro di guerra accuratamente costruito in Ucraina sta cadendo a pezzi, e sta accadendo perché un uomo, il presidente Donald J. Trump, ha osato opporsi al cartello di guerra globalista e ha lanciato un appello umanitario diretto al presidente Vladimir Putin.

    Migliaia di soldati ucraini intrappolati nella regione di Kursk rischiavano l'annientamento. Non è mai stata una questione di se sarebbero stati annientati, ma di quando. Ma Trump è intervenuto e ha fermato il massacro, rivelando esattamente chi detiene il vero potere sulla scena mondiale. Non Biden. Non la NATO. Trump.

    Non si è trattato solo di una trattativa di cessate il fuoco, ma di una detonazione globale della verità, uno smascheramento delle mani insanguinate del Deep State. La narrazione attentamente coordinata di una "guerra giusta" contro l'aggressione russa è crollata sotto il peso dell'intervento di Trump. E per la prima volta, lo stesso Putin l'ha riconosciuto pubblicamente, non con un linguaggio vago, ma con chiarezza e intento.

    "Abbiamo letto l'appello odierno del Presidente Trump per risparmiare la vita dei militari dell'esercito ucraino nella regione di Kursk..."

    Lasciate che questo sedimenti. Putin non ha risposto a Biden, all'ONU o alla NATO. Ha risposto a Trump. Perché in realtà Biden è solo una facciata in putrefazione, un burattino installato da una macchina che ha perso il controllo nel momento in cui Trump è tornato al potere dietro le quinte. Ciò che è accaduto a Kursk non è solo uno sviluppo militare, è un messaggio al mondo: Trump è
    tornato e il regime di guerra globale sta crollando.

    Kursk: il massacro che doveva accadere

    La verità è orribile. Migliaia di soldati ucraini sono stati circondati dalle forze russe in un massiccio movimento a tenaglia, un'operazione preparata da tempo ed eseguita con spietata precisione. Questi soldati, molti dei quali arruolati, abbandonati e usati come carne da cannone dal regime di Zelensky, erano sul punto di essere annientati in quella che sarebbe stata la più grande carneficina sul campo di battaglia dalla seconda guerra mondiale. E questa non è una speculazione, è direttamente da Trump stesso:

    “MIGLIAIA DI TRUPPE UCRAINE SONO COMPLETAMENTE CIRCONDATE DALL'ESERCITO RUSSO… Ho chiesto con forza al Presidente Putin che le loro vite vengano risparmiate. Questo sarebbe un massacro orribile, uno che non si vedeva dalla Seconda Guerra Mondiale.”

    Questo massacro non è mai stato involontario. Faceva parte del piano. I globalisti VOLEVANO questo bagno di sangue. Volevano che fosse trasmesso in televisione. Volevano usarlo come leva emotiva per intensificare il coinvolgimento della NATO, innescare l'articolo 5 e innescare un conflitto globale in piena regola.

    La morte di questi soldati era un sacrificio necessario nel loro copione. E Zelensky, l'attore-presidente trasformatosi in dittatore fantoccio, era pronto a lasciarlo accadere. Perché non risponde al suo popolo, risponde alla stessa rete ombra che finanzia entrambe le parti di ogni guerra.

    Ma Trump ha distrutto la sceneggiatura.

    La risposta calcolata di Putin e perché ascolta Trump
    Putin non ha ignorato l'appello. Ma ha chiarito una cosa: le sue forze non stanno operando a caso. Ha dichiarato inequivocabilmente che i militanti ucraini hanno commesso numerosi crimini contro i civili, che la Russia classifica come terrorismo. Questo è importante. Perché ciò che Putin sta effettivamente facendo è esporre le atrocità nascoste che la stampa occidentale ha seppellito.
    Perché pensi che il blackout mediatico sull'accerchiamento di Kursk sia stato così assoluto? Perché la stampa mainstream ha fatto finta che non esistesse? Perché una volta che la verità viene a galla, ovvero che le forze dell'Ucraina non sono valorosi difensori ma strumenti del terrore armati e diretti dall'intelligence occidentale, l'intero castello di carte crolla.

    L'offerta condizionale di clemenza di Putin non è debolezza. È una mossa strategica calcolata per dare a Trump una leva politica, perché Putin sa che Trump non è controllato. Sa che Trump non è una marionetta della cabala bancaria Rothschild, dei parassiti di Davos o del complesso militare-industriale.

    "Siamo solidali con l'appello del Presidente Trump... Se depongono le armi e si arrendono, verrà loro garantita la vita e un trattamento dignitoso".

    Queste non sono solo parole. Questo è un segnale aperto di allineamento geopolitico. Mentre le élite occidentali fingono che Trump sia "fuori dal potere", Putin ha appena chiarito che Trump è l'unico leader con cui vale la pena parlare.

    Il cessate il fuoco – Un cavallo di Troia per la verità
    Siamo onesti. Il cessate il fuoco proposto di 30 giorni non riguarda la pace. Riguarda l'esposizione. Riguarda il ritardo del piano del Deep State abbastanza a lungo da far emergere altre verità, da far emergere altri tribunali militari, altri arresti di alto livello e altre informazioni riservate. Il tempismo è troppo perfetto per essere una coincidenza.

    Il team di Trump si sta muovendo rapidamente dietro le quinte. Ogni mossa è calcolata. Ogni appello, ogni post, ogni messaggio: non sono dichiarazioni pubbliche. Sono segnali militari. Questa non è solo una mossa politica: è parte di un'operazione più ampia per smantellare l'intera cabala che controlla questa guerra.

    Biden è completamente silenzioso perché non ha autorità. Zelensky è stato lasciato a secco. Nel momento in cui il comando ucraino si rifiuta di ordinare alle proprie truppe di arrendersi, la verità diventa innegabile: VOGLIONO CHE I PROPRI SOLDATI SIANO MORTI. E quando ciò accadrà, Trump li riterrà responsabili sulla scena mondiale.

    Il peggior incubo dello Stato profondo si sta realizzando
    Questo evento di Kursk è più grande di quanto chiunque possa immaginare. Segna un cambiamento. Il riconoscimento pubblico di Trump da parte di Putin, la comunicazione diretta, l'offerta di clemenza, il cessate il fuoco: è tutto un segnale. Un segnale che l'ordine globale sta crollando. I profittatori della guerra sono in preda al panico. I media corrotti non possono contenerlo.

    Ciò che volevano era l'escalation. Ciò che hanno ottenuto è stato Trump.

    Ciò che volevano era una morte di massa. Ciò che hanno ottenuto è stato un intervento umanitario che non possono manipolare o controllare.

    Ciò che volevano era la guerra totale. Ciò che ottennero fu il ritorno di una vera leadership, guidata da onore, strategia e chiarezza morale.

    Parola finale: Trump sta guidando il mondo dall'ombra
    Niente più illusioni. Trump non se n'è mai andato. Ha agito dietro le quinte, coordinando mosse globali che stanno rimodellando la storia. Questo cessate il fuoco di Kursk è opera sua. Non della NATO. Non dell'ONU. Non del Pentagono. Trump ha fatto la chiamata, e Putin ha risposto. Questo è il vero titolo. Questo è il messaggio che non sentirete sulla CNN.

    I globalisti hanno perso il controllo. La loro guerra sta crollando. La loro narrazione si sta disintegrando. E Trump è riemerso come l'unico uomo in grado di fermare l'apocalisse progettata che desideravano disperatamente.

    Kursk avrebbe dovuto essere un massacro. Invece, è diventato un simbolo della crescente influenza globale di Trump e dello sgretolamento di tutto ciò che il Deep State ha impiegato anni a costruire.

    La fine è vicina, ma non è quella che desideravano.

    Source: https://www.facebook.com/share/p/1B8mxwmGnU/
    TRUMP FERMA IL MASSACRO! Putin obbedisce all'ordine di Trump: migliaia di soldati ucraini salvati dal bagno di sangue del Deep State a Kursk! Trump ha appena infranto l'illusione. Il teatro di guerra accuratamente costruito in Ucraina sta cadendo a pezzi, e sta accadendo perché un uomo, il presidente Donald J. Trump, ha osato opporsi al cartello di guerra globalista e ha lanciato un appello umanitario diretto al presidente Vladimir Putin. Migliaia di soldati ucraini intrappolati nella regione di Kursk rischiavano l'annientamento. Non è mai stata una questione di se sarebbero stati annientati, ma di quando. Ma Trump è intervenuto e ha fermato il massacro, rivelando esattamente chi detiene il vero potere sulla scena mondiale. Non Biden. Non la NATO. Trump. Non si è trattato solo di una trattativa di cessate il fuoco, ma di una detonazione globale della verità, uno smascheramento delle mani insanguinate del Deep State. La narrazione attentamente coordinata di una "guerra giusta" contro l'aggressione russa è crollata sotto il peso dell'intervento di Trump. E per la prima volta, lo stesso Putin l'ha riconosciuto pubblicamente, non con un linguaggio vago, ma con chiarezza e intento. "Abbiamo letto l'appello odierno del Presidente Trump per risparmiare la vita dei militari dell'esercito ucraino nella regione di Kursk..." Lasciate che questo sedimenti. Putin non ha risposto a Biden, all'ONU o alla NATO. Ha risposto a Trump. Perché in realtà Biden è solo una facciata in putrefazione, un burattino installato da una macchina che ha perso il controllo nel momento in cui Trump è tornato al potere dietro le quinte. Ciò che è accaduto a Kursk non è solo uno sviluppo militare, è un messaggio al mondo: Trump è tornato e il regime di guerra globale sta crollando. Kursk: il massacro che doveva accadere La verità è orribile. Migliaia di soldati ucraini sono stati circondati dalle forze russe in un massiccio movimento a tenaglia, un'operazione preparata da tempo ed eseguita con spietata precisione. Questi soldati, molti dei quali arruolati, abbandonati e usati come carne da cannone dal regime di Zelensky, erano sul punto di essere annientati in quella che sarebbe stata la più grande carneficina sul campo di battaglia dalla seconda guerra mondiale. E questa non è una speculazione, è direttamente da Trump stesso: “MIGLIAIA DI TRUPPE UCRAINE SONO COMPLETAMENTE CIRCONDATE DALL'ESERCITO RUSSO… Ho chiesto con forza al Presidente Putin che le loro vite vengano risparmiate. Questo sarebbe un massacro orribile, uno che non si vedeva dalla Seconda Guerra Mondiale.” Questo massacro non è mai stato involontario. Faceva parte del piano. I globalisti VOLEVANO questo bagno di sangue. Volevano che fosse trasmesso in televisione. Volevano usarlo come leva emotiva per intensificare il coinvolgimento della NATO, innescare l'articolo 5 e innescare un conflitto globale in piena regola. La morte di questi soldati era un sacrificio necessario nel loro copione. E Zelensky, l'attore-presidente trasformatosi in dittatore fantoccio, era pronto a lasciarlo accadere. Perché non risponde al suo popolo, risponde alla stessa rete ombra che finanzia entrambe le parti di ogni guerra. Ma Trump ha distrutto la sceneggiatura. La risposta calcolata di Putin e perché ascolta Trump Putin non ha ignorato l'appello. Ma ha chiarito una cosa: le sue forze non stanno operando a caso. Ha dichiarato inequivocabilmente che i militanti ucraini hanno commesso numerosi crimini contro i civili, che la Russia classifica come terrorismo. Questo è importante. Perché ciò che Putin sta effettivamente facendo è esporre le atrocità nascoste che la stampa occidentale ha seppellito. Perché pensi che il blackout mediatico sull'accerchiamento di Kursk sia stato così assoluto? Perché la stampa mainstream ha fatto finta che non esistesse? Perché una volta che la verità viene a galla, ovvero che le forze dell'Ucraina non sono valorosi difensori ma strumenti del terrore armati e diretti dall'intelligence occidentale, l'intero castello di carte crolla. L'offerta condizionale di clemenza di Putin non è debolezza. È una mossa strategica calcolata per dare a Trump una leva politica, perché Putin sa che Trump non è controllato. Sa che Trump non è una marionetta della cabala bancaria Rothschild, dei parassiti di Davos o del complesso militare-industriale. "Siamo solidali con l'appello del Presidente Trump... Se depongono le armi e si arrendono, verrà loro garantita la vita e un trattamento dignitoso". Queste non sono solo parole. Questo è un segnale aperto di allineamento geopolitico. Mentre le élite occidentali fingono che Trump sia "fuori dal potere", Putin ha appena chiarito che Trump è l'unico leader con cui vale la pena parlare. Il cessate il fuoco – Un cavallo di Troia per la verità Siamo onesti. Il cessate il fuoco proposto di 30 giorni non riguarda la pace. Riguarda l'esposizione. Riguarda il ritardo del piano del Deep State abbastanza a lungo da far emergere altre verità, da far emergere altri tribunali militari, altri arresti di alto livello e altre informazioni riservate. Il tempismo è troppo perfetto per essere una coincidenza. Il team di Trump si sta muovendo rapidamente dietro le quinte. Ogni mossa è calcolata. Ogni appello, ogni post, ogni messaggio: non sono dichiarazioni pubbliche. Sono segnali militari. Questa non è solo una mossa politica: è parte di un'operazione più ampia per smantellare l'intera cabala che controlla questa guerra. Biden è completamente silenzioso perché non ha autorità. Zelensky è stato lasciato a secco. Nel momento in cui il comando ucraino si rifiuta di ordinare alle proprie truppe di arrendersi, la verità diventa innegabile: VOGLIONO CHE I PROPRI SOLDATI SIANO MORTI. E quando ciò accadrà, Trump li riterrà responsabili sulla scena mondiale. Il peggior incubo dello Stato profondo si sta realizzando Questo evento di Kursk è più grande di quanto chiunque possa immaginare. Segna un cambiamento. Il riconoscimento pubblico di Trump da parte di Putin, la comunicazione diretta, l'offerta di clemenza, il cessate il fuoco: è tutto un segnale. Un segnale che l'ordine globale sta crollando. I profittatori della guerra sono in preda al panico. I media corrotti non possono contenerlo. Ciò che volevano era l'escalation. Ciò che hanno ottenuto è stato Trump. Ciò che volevano era una morte di massa. Ciò che hanno ottenuto è stato un intervento umanitario che non possono manipolare o controllare. Ciò che volevano era la guerra totale. Ciò che ottennero fu il ritorno di una vera leadership, guidata da onore, strategia e chiarezza morale. Parola finale: Trump sta guidando il mondo dall'ombra Niente più illusioni. Trump non se n'è mai andato. Ha agito dietro le quinte, coordinando mosse globali che stanno rimodellando la storia. Questo cessate il fuoco di Kursk è opera sua. Non della NATO. Non dell'ONU. Non del Pentagono. Trump ha fatto la chiamata, e Putin ha risposto. Questo è il vero titolo. Questo è il messaggio che non sentirete sulla CNN. I globalisti hanno perso il controllo. La loro guerra sta crollando. La loro narrazione si sta disintegrando. E Trump è riemerso come l'unico uomo in grado di fermare l'apocalisse progettata che desideravano disperatamente. Kursk avrebbe dovuto essere un massacro. Invece, è diventato un simbolo della crescente influenza globale di Trump e dello sgretolamento di tutto ciò che il Deep State ha impiegato anni a costruire. La fine è vicina, ma non è quella che desideravano. Source: https://www.facebook.com/share/p/1B8mxwmGnU/
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  • Vannacci: Ci hanno dipinto per 3 anni una #Russia che perde sui campi di battaglia, che vanno in giro con dei badili perché hanno finito le munizioni, sz mezzi e vanno a dorso d'asino, che sono infognati nel #Donbass e OGGI CE LA DIPINGONO COME IL GRANDE NEMICO INCOMBENTE❓️

    Vannacci: For 3 years they have portrayed to us a #Russia that is losing on the battlefields, that goes around with shovels because they have run out of ammunition, without vehicles and go on donkey backs, that they are stuck in the #Donbass and TODAY THEY PAINT IT TO US AS THE GREAT ENEMY LOUNKING❓️
    🇮🇹Vannacci: Ci hanno dipinto per 3 anni una #Russia che perde sui campi di battaglia, che vanno in giro con dei badili perché hanno finito le munizioni, sz mezzi e vanno a dorso d'asino, che sono infognati nel #Donbass e OGGI CE LA DIPINGONO COME IL GRANDE NEMICO INCOMBENTE❓️ 🇬🇧Vannacci: For 3 years they have portrayed to us a #Russia that is losing on the battlefields, that goes around with shovels because they have run out of ammunition, without vehicles and go on donkey backs, that they are stuck in the #Donbass and TODAY THEY PAINT IT TO US AS THE GREAT ENEMY LOUNKING❓️
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