TRUMP DEVE MORIRE
Ci sono due notizie recenti che vanno osservate da vicino, e messe in relazione fra loro.
La prima. Si attende ad ore il passo indietro di Joe Biden, a favore della candidatura della sua vice Kamala Harris, complice il quinto Covid preso dal presidente: uno dopo ogni vaccinazione alla quale POTUS si è sottoposto. L’infezione è “mild”, moderata.
Questo colpo di scena, se arriverà, sarà dopo settimane di resistenze in seguito alla figuraccia nell’irrituale dibattito presidenziale di giugno – tuttavia non risolve il problema dei democratici: nonostante i sondaggi accreditino altri potenziali candidati come Michelle Obama, Gavin Newsom e la stessa Harris intorno alle stesse percentuali di Biden (a sua volta dato 2-3 punti sotto Trump) la realtà appare molto meno confortante, con le chances di battere un Trump lanciatissimo ridotte ad un lumicino.
La seconda. Di cinque giorni fa – quindi posteriore all’attentato di Butler a Trump – la notizia data dalla premiata ditta Cia-Mossad di un piano iraniano per assassinare Trump. Il piano, affermano le fonti, sarebbe una vendetta per l’assassinio del generale Soleimani, perpetrato nel 2020 proprio da Cia e Mossad sotto la presidenza Trump. C’è chi dice senza l’avallo presidenziale: il presidente ha dovuto fare buon viso e cattivo gioco.
Quale che sia la verità fattuale – non credo alla versione, vagamente naïve, di Trump nemico giurato del deep state e contrario all’assassinio di Soleimani – la possibilità che emerge dal combinato disposto del “groviglio armonioso” Dem e dell’attentato fallito a Trump è un secondo attentato al candidato repubblicano, questa volta più radicale. Penso ad un’autobomba o qualcosa di più devastante, ad imitazione del bombardamento che a Baghdad ha colpito il corteo di Soleimani, uccidendolo.
L’ipotesi può sembrare folle, ma ha senso. Esaminiamo il “campo largo” della storia recente: gli Stati Uniti, dopo decenni di guerre “minori” e proxy war contro avversari manifestamente inferiori – Iraq, Libia, Serbia, Siria – hanno ora vitale (o letale, a seconda dei punti di vista) bisogno di uno scontro con un nemico all’altezza. Una nemesi, per citare il mito greco. Che si chiami Russia, Cina o Iran è secondario. Solo la vittoria in uno scontro di questo tipo garantirebbe un’egemonia stabile per almeno un secolo.
Ne hanno bisogno perché sono una superpotenza cultural-militare. L’idea stessa di superpotenza è un dato di cultura, figlio di decenni di costosissima propaganda che hanno reso il modello americano vincente sul piano psichico. La superpotenza americana è immagine cinematografica: non soltanto il cinema la riflette, ma la realtà stessa dell’esercizio del potere si è dovuta adattare al linguaggio dell’immagine. La politica americana, le campagne elettorali sono puro show.
Il problema è che non tutto il mondo è sensibile alla propaganda: non lo è l’impero russo, non lo è quello cinese, non lo è il più piccolo ma non meno agguerrito, quello iraniano. Allora, complice il velo di Maya della propaganda che prima distrugge il nemico sul piano spirituale (il male assoluto, Hitler e via dicendo), bisogna sottometterlo militarmente. Solo dopo averne distrutto l’immagine.
Non solo. Per garantirsi uno scontro che ponga da subito gli Stati Uniti sul piano superiore – spirituale e morale – dell’immagine pubblica, bisogna che sia la nemesi ad attaccare. È stato così a Pearl Harbour, è stato così con l’incidente del Tonchino che diede agio a Johnson di attaccare il Vietnam senza una formale dichiarazione di guerra, è stato così l’11 settembre.
Mentre nei tre casi citati il popolo americano si è mostrato compatto sotto l’ombrello dell’ideale, a questa curva della storia gli U.S.A. arrivano profondamente logori, sfilacciati, divisi. Qualche autorevole commentatore sostiene sull’orlo della guerra civile.
Ecco allora che per ricompattare il fronte interno bisogna che la nemesi esterna uccida quella interna, vale a dire Donald Trump, l’Hitler americano come Putin è l’Hitler Russo, Assad l’Hitler siriano e via dicendo. Solo in questo modo, pensano gli strateghi occulti registi di queste operazioni, una società in frantumi tornerebbe ad unirsi. È un calcolo cinico, ma per certi aspetti fondato.
Così avverrebbe lo scontro contro una delle superpotenze rivali – la più debole, in un certo senso: tuttavia visto l’esito del Vietnam bisognerebbe comunque fare attenzione, anche perché l’Iran non è il Vietnam, essendo militarmente superiore – che dovrebbe porre fine all’emergente mondo multipolare, garantendo al plesso americano una supremazia incontrastata.
Una guerra, fra l’altro, avrebbe l’indiscutibile pregio di rinviare ad libitum le elezioni presidenziali, consentendo ai Dem di conservare presidenza, camera e senato, i tre pilastri del potere democratico o come volete chiamare ciò che ne resta. Allo stato attuale, rischiano di abbandonare tutti i tavoli da gioco.
Per queste ragioni brevemente esposte, ritengo che proveranno ad uccidere ancora Donald Trump addossando la colpa all’Iran. Data la situazione generale, non hanno altra scelta.
Pluto
Ci sono due notizie recenti che vanno osservate da vicino, e messe in relazione fra loro.
La prima. Si attende ad ore il passo indietro di Joe Biden, a favore della candidatura della sua vice Kamala Harris, complice il quinto Covid preso dal presidente: uno dopo ogni vaccinazione alla quale POTUS si è sottoposto. L’infezione è “mild”, moderata.
Questo colpo di scena, se arriverà, sarà dopo settimane di resistenze in seguito alla figuraccia nell’irrituale dibattito presidenziale di giugno – tuttavia non risolve il problema dei democratici: nonostante i sondaggi accreditino altri potenziali candidati come Michelle Obama, Gavin Newsom e la stessa Harris intorno alle stesse percentuali di Biden (a sua volta dato 2-3 punti sotto Trump) la realtà appare molto meno confortante, con le chances di battere un Trump lanciatissimo ridotte ad un lumicino.
La seconda. Di cinque giorni fa – quindi posteriore all’attentato di Butler a Trump – la notizia data dalla premiata ditta Cia-Mossad di un piano iraniano per assassinare Trump. Il piano, affermano le fonti, sarebbe una vendetta per l’assassinio del generale Soleimani, perpetrato nel 2020 proprio da Cia e Mossad sotto la presidenza Trump. C’è chi dice senza l’avallo presidenziale: il presidente ha dovuto fare buon viso e cattivo gioco.
Quale che sia la verità fattuale – non credo alla versione, vagamente naïve, di Trump nemico giurato del deep state e contrario all’assassinio di Soleimani – la possibilità che emerge dal combinato disposto del “groviglio armonioso” Dem e dell’attentato fallito a Trump è un secondo attentato al candidato repubblicano, questa volta più radicale. Penso ad un’autobomba o qualcosa di più devastante, ad imitazione del bombardamento che a Baghdad ha colpito il corteo di Soleimani, uccidendolo.
L’ipotesi può sembrare folle, ma ha senso. Esaminiamo il “campo largo” della storia recente: gli Stati Uniti, dopo decenni di guerre “minori” e proxy war contro avversari manifestamente inferiori – Iraq, Libia, Serbia, Siria – hanno ora vitale (o letale, a seconda dei punti di vista) bisogno di uno scontro con un nemico all’altezza. Una nemesi, per citare il mito greco. Che si chiami Russia, Cina o Iran è secondario. Solo la vittoria in uno scontro di questo tipo garantirebbe un’egemonia stabile per almeno un secolo.
Ne hanno bisogno perché sono una superpotenza cultural-militare. L’idea stessa di superpotenza è un dato di cultura, figlio di decenni di costosissima propaganda che hanno reso il modello americano vincente sul piano psichico. La superpotenza americana è immagine cinematografica: non soltanto il cinema la riflette, ma la realtà stessa dell’esercizio del potere si è dovuta adattare al linguaggio dell’immagine. La politica americana, le campagne elettorali sono puro show.
Il problema è che non tutto il mondo è sensibile alla propaganda: non lo è l’impero russo, non lo è quello cinese, non lo è il più piccolo ma non meno agguerrito, quello iraniano. Allora, complice il velo di Maya della propaganda che prima distrugge il nemico sul piano spirituale (il male assoluto, Hitler e via dicendo), bisogna sottometterlo militarmente. Solo dopo averne distrutto l’immagine.
Non solo. Per garantirsi uno scontro che ponga da subito gli Stati Uniti sul piano superiore – spirituale e morale – dell’immagine pubblica, bisogna che sia la nemesi ad attaccare. È stato così a Pearl Harbour, è stato così con l’incidente del Tonchino che diede agio a Johnson di attaccare il Vietnam senza una formale dichiarazione di guerra, è stato così l’11 settembre.
Mentre nei tre casi citati il popolo americano si è mostrato compatto sotto l’ombrello dell’ideale, a questa curva della storia gli U.S.A. arrivano profondamente logori, sfilacciati, divisi. Qualche autorevole commentatore sostiene sull’orlo della guerra civile.
Ecco allora che per ricompattare il fronte interno bisogna che la nemesi esterna uccida quella interna, vale a dire Donald Trump, l’Hitler americano come Putin è l’Hitler Russo, Assad l’Hitler siriano e via dicendo. Solo in questo modo, pensano gli strateghi occulti registi di queste operazioni, una società in frantumi tornerebbe ad unirsi. È un calcolo cinico, ma per certi aspetti fondato.
Così avverrebbe lo scontro contro una delle superpotenze rivali – la più debole, in un certo senso: tuttavia visto l’esito del Vietnam bisognerebbe comunque fare attenzione, anche perché l’Iran non è il Vietnam, essendo militarmente superiore – che dovrebbe porre fine all’emergente mondo multipolare, garantendo al plesso americano una supremazia incontrastata.
Una guerra, fra l’altro, avrebbe l’indiscutibile pregio di rinviare ad libitum le elezioni presidenziali, consentendo ai Dem di conservare presidenza, camera e senato, i tre pilastri del potere democratico o come volete chiamare ciò che ne resta. Allo stato attuale, rischiano di abbandonare tutti i tavoli da gioco.
Per queste ragioni brevemente esposte, ritengo che proveranno ad uccidere ancora Donald Trump addossando la colpa all’Iran. Data la situazione generale, non hanno altra scelta.
Pluto
TRUMP DEVE MORIRE
Ci sono due notizie recenti che vanno osservate da vicino, e messe in relazione fra loro.
La prima. Si attende ad ore il passo indietro di Joe Biden, a favore della candidatura della sua vice Kamala Harris, complice il quinto Covid preso dal presidente: uno dopo ogni vaccinazione alla quale POTUS si è sottoposto. L’infezione è “mild”, moderata.
Questo colpo di scena, se arriverà, sarà dopo settimane di resistenze in seguito alla figuraccia nell’irrituale dibattito presidenziale di giugno – tuttavia non risolve il problema dei democratici: nonostante i sondaggi accreditino altri potenziali candidati come Michelle Obama, Gavin Newsom e la stessa Harris intorno alle stesse percentuali di Biden (a sua volta dato 2-3 punti sotto Trump) la realtà appare molto meno confortante, con le chances di battere un Trump lanciatissimo ridotte ad un lumicino.
La seconda. Di cinque giorni fa – quindi posteriore all’attentato di Butler a Trump – la notizia data dalla premiata ditta Cia-Mossad di un piano iraniano per assassinare Trump. Il piano, affermano le fonti, sarebbe una vendetta per l’assassinio del generale Soleimani, perpetrato nel 2020 proprio da Cia e Mossad sotto la presidenza Trump. C’è chi dice senza l’avallo presidenziale: il presidente ha dovuto fare buon viso e cattivo gioco.
Quale che sia la verità fattuale – non credo alla versione, vagamente naïve, di Trump nemico giurato del deep state e contrario all’assassinio di Soleimani – la possibilità che emerge dal combinato disposto del “groviglio armonioso” Dem e dell’attentato fallito a Trump è un secondo attentato al candidato repubblicano, questa volta più radicale. Penso ad un’autobomba o qualcosa di più devastante, ad imitazione del bombardamento che a Baghdad ha colpito il corteo di Soleimani, uccidendolo.
L’ipotesi può sembrare folle, ma ha senso. Esaminiamo il “campo largo” della storia recente: gli Stati Uniti, dopo decenni di guerre “minori” e proxy war contro avversari manifestamente inferiori – Iraq, Libia, Serbia, Siria – hanno ora vitale (o letale, a seconda dei punti di vista) bisogno di uno scontro con un nemico all’altezza. Una nemesi, per citare il mito greco. Che si chiami Russia, Cina o Iran è secondario. Solo la vittoria in uno scontro di questo tipo garantirebbe un’egemonia stabile per almeno un secolo.
Ne hanno bisogno perché sono una superpotenza cultural-militare. L’idea stessa di superpotenza è un dato di cultura, figlio di decenni di costosissima propaganda che hanno reso il modello americano vincente sul piano psichico. La superpotenza americana è immagine cinematografica: non soltanto il cinema la riflette, ma la realtà stessa dell’esercizio del potere si è dovuta adattare al linguaggio dell’immagine. La politica americana, le campagne elettorali sono puro show.
Il problema è che non tutto il mondo è sensibile alla propaganda: non lo è l’impero russo, non lo è quello cinese, non lo è il più piccolo ma non meno agguerrito, quello iraniano. Allora, complice il velo di Maya della propaganda che prima distrugge il nemico sul piano spirituale (il male assoluto, Hitler e via dicendo), bisogna sottometterlo militarmente. Solo dopo averne distrutto l’immagine.
Non solo. Per garantirsi uno scontro che ponga da subito gli Stati Uniti sul piano superiore – spirituale e morale – dell’immagine pubblica, bisogna che sia la nemesi ad attaccare. È stato così a Pearl Harbour, è stato così con l’incidente del Tonchino che diede agio a Johnson di attaccare il Vietnam senza una formale dichiarazione di guerra, è stato così l’11 settembre.
Mentre nei tre casi citati il popolo americano si è mostrato compatto sotto l’ombrello dell’ideale, a questa curva della storia gli U.S.A. arrivano profondamente logori, sfilacciati, divisi. Qualche autorevole commentatore sostiene sull’orlo della guerra civile.
Ecco allora che per ricompattare il fronte interno bisogna che la nemesi esterna uccida quella interna, vale a dire Donald Trump, l’Hitler americano come Putin è l’Hitler Russo, Assad l’Hitler siriano e via dicendo. Solo in questo modo, pensano gli strateghi occulti registi di queste operazioni, una società in frantumi tornerebbe ad unirsi. È un calcolo cinico, ma per certi aspetti fondato.
Così avverrebbe lo scontro contro una delle superpotenze rivali – la più debole, in un certo senso: tuttavia visto l’esito del Vietnam bisognerebbe comunque fare attenzione, anche perché l’Iran non è il Vietnam, essendo militarmente superiore – che dovrebbe porre fine all’emergente mondo multipolare, garantendo al plesso americano una supremazia incontrastata.
Una guerra, fra l’altro, avrebbe l’indiscutibile pregio di rinviare ad libitum le elezioni presidenziali, consentendo ai Dem di conservare presidenza, camera e senato, i tre pilastri del potere democratico o come volete chiamare ciò che ne resta. Allo stato attuale, rischiano di abbandonare tutti i tavoli da gioco.
Per queste ragioni brevemente esposte, ritengo che proveranno ad uccidere ancora Donald Trump addossando la colpa all’Iran. Data la situazione generale, non hanno altra scelta.
Pluto
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